23 febbraio – Appuntamento al buio

Omelette per colazione, una di quelle cose che amo alla follia. Eccoci qua, io, Christian e Dario, seduti al tavolo a banchettare alle 7 di mattina. Lui deve tornare a Yagouà, noi in programma abbiamo di rientrare a Casa Cumse (Garoua). In marcia dunque! Salutato il nostro ospite alla stazione dei car, andiamo dritti dritti alla fondazione Bethleém (Pime) per il commiato di rito. È molto che sento parlare di una leggenda vivente. Un uomo capace di gestire fruttuosamente il centro. 175 dipendenti, tra le 500 e le 600 persone ogni giorno gravitanti all’interno della struttura. Sia il presidente che Christian mi hanno parlato spesso del fondatore della realtà di Mouda in termini più che positivi, quasi epici. E come è proprio di tutti i grandi, padre Danilo ci accoglie con semplicità e spigliatezza: “un caffè lo bevete?”. Inutile dirvi che abbiamo accettato. È arrivato nel 1990 e dal 1997 vive e lavora presso il complesso che nel tempo ha creato. È stato difficile collaborare con molte teste diverse nell’arco dei decenni, ma lui è un uomo paziente e moderato, tendenzialmente sorridente, abbastanza abile alla diplomazia. È sicuro che il suo successore avrà difficoltà (almeno all’inizio) ad apprendere la magica arte di chiudere un occhio quando serve e farlo chiudere vicendevolmente al bisogno. “Ma lei non si arrabbia mai?”. “Lei, lei, lei… diamoci del tu! Diciamo che mi arrabbio poco, però quando succede alla fine mi dicono grazie!”. Insomma meglio non approfittarsi dell’infinita pazienza di quest’uomo. Il periodo è quello che è, le difficoltà ci sono per tutti, in qualche modo si riesce a tenere insieme i pezzi dal punto di vista amministrativo.

“Restate a pranzo? – gli basta guardarci senza aspettare la risposta – avviso il cuoco!”. Tanti i consigli preziosi ricevuti e tanto importanti per me che sono giovincello e senza esperienza nella cooperazione. L’occasione di mangiare insieme ci da l’opportunità di salutare tutti: Gigi, suor Rosa, Francesca, Silvia e ovviamente anche Fratel Domenico, sempre concentratissimo sulla riparazione dei contro-soffitti! Un uomo instancabile. Si parla di guerra, di Boko Haram, di strade malmesse e di politica. Silvia sta leggendo il mio blog, fa comodo anche a lei che qualcuno cerchi di rispondere al famoso quesito: “ma che cosa vai a fare?”. A quel punto Gigi estrae dal cilindro una perla di rara bellezza: “dovrei aver paura di Boko Haram e starmene a casa, quando in Italia c’abbiamo Renzi? Ma mi facciano il piacere!” Genio! Condivido, avrei 1000 invettive pre confezionate contro il personaggio, ma preferisco non ungere di bile i miei ultimi momenti con loro. Riesco a strappare un souvenir fotografico di me e suor Rosa “quello fotogenico sei tu!” Esclama un po’ scocciata. Il mio ego vanesio si esalta e me la stringo forte forte sotto braccio. “Noi siamo qui, torna quando vuoi!”. Devo scattare alcune immagini a scopo promozionale, chissà che non si riesca a raccogliere qualche fondo per la realtà di Mouda. Mi avvicino ad un uomo intento a scolpire un “San Rocco” nel legno. Gli faccio i miei complimenti, mi piace moltissimo quello che fa. Lui sorride ma è sordo, non capisce. Ennesima figura di M! Grande Vale avanti così! Alzo due pollici in su e sorrido come meglio posso dopo aver indicato la statua. Mi pare abbia ricevuto il messaggio, noi italiani del resto quanto a gesticolare non abbiamo nulla da invidiare al mondo.

L’idea di lasciarmi tante porte aperte alle spalle mi rende felice, è rassicurante poter contare sull’aiuto di persone così in gamba. In sella al nostro destriero gommato, si riparte in direzione di Bidzar, da suor Miriam. Sono già le 14.30. I bimbi mi accolgono festosi, nemmeno il tempo di affezionarmici e devo già salutarli. Niente piagnistei, ci rivedremo furfantelli! Christian da disposizioni al meccanico per la riparazione del motore del famoso triciclo, andrà in Nigeria a recuperarlo e si occuperà personalmente di assemblarlo. Con questa piccola spesa il loro commercio di pane potrà riprendere attivamente garantendo un minimo di entrate all’orfanotrofio. Courage c’è da tornare a casa! Vi ricordate delle venditrici di vasi incontrate all’andata? Dobbiamo ritirare i nostri acquisti. In fondo è una fortuna che io non abbia più lo zaino col pc… c’è più spazio in auto per caricare la merce delicata. Il mio amico sordo mi abbraccia. Mi sento veramente come una star del cinema. Con la sola differenza che io non ho fatto niente per essere acclamato e dunque non lo merito… ma a caval donato! Voglio fare una foto con loro. Alcune donne mi si avvicinano, dato che abbiamo comprato molto mi offrono dei doni.

Un salvadanaio e una coppetta di argilla. Dicono che sono per i bambini. Già so che regalerò qualcosa al piccolo Matacon, chissà come se la passa per altro! Vorrei abbracciare la donna che, con estremo senso del pudore, sorride e si allontana. Non esistono esternazioni del genere qui, ci si limita a sollevare i palmi delle mani davanti all’interlocutore in segno di rispetto e gratitudine. Ho esagerato, mi scuso e ringrazio. Lei sorride. Che volete che vi dica, vale come sempre la regolina: facile dare tanto quando si ha tanto, davvero grande è colui che da tutto quel poco di cui dispone. Prima della miseria, campeggia monolitica la dignità di questo popolo che non indugia nemmeno per un secondo nel privarsi di qualcosa, pur mancandogli l’essenziale, con generosità genuina. Tra le righe si può leggere una grande lezione di stile e, onestamente, sarei davvero contento se qualche esperto di marketing addetto alle pubblicità progresso la imparasse!

Carichi di fragilissimi recipienti riprendiamo la rotta di Garoua con il terrore ed il sudore freddo davanti ad ogni possibile buca o dosso. È sufficiente una vibrazione di troppo per mandare tutta la merce a ramengo. Ore 19, missione compiuta: gli antichi vasi sono stati portati in salvo, sorprendentemente interi. Non c’è luce… le torce che avevo erano nello zaino che mi hanno fregato. Non c’è corrente. Il mio power-bank è andato chissà dove. Pazienza. Marlise ci aspetta.

Spaghettini al pomodoro e insalatona di carote, avocado, barbabietole e cipolle. Dimentico i miei averi andati persi, posso vivere senza niente, eccetto che privo della buona cucina. Banchettiamo a lume di cellulare. Satollo e stremato tengo compagnia alla mia amica mentre lei lava i piatti. Di aiutarla non c’è verso, è il suo mestiere! “Sai cosa Marlise? Quasi quasi mi faccio una doccia al buio! All’africana!” Lei approva il mio coraggio. Preparo i vestiti sul lavandino di modo da trovarli a fine rituale. Ci manca solo che mi metta a girovagare nudo per casa! Mi infilo dietro la tenda e apro l’acqua. C’è poca pressione, il liquido scende lentamente, non posso sollevare il doccino all’altezza della mia testa altrimenti non esce nulla. Mi devo piegare un po’ sulle ginocchia. Mi insapono lentamente, nonostante la luce della luna quasi piena faccia capolino dalla finestra, mi viene spontaneo chiudere gli occhi e abbandonarmi al silenzio. Solo il rubinetto di Marlise e lo sbattere di qualche pentola dalla cucina interrompono il flusso dei miei pensieri. Non ho alcuna fretta,  posso massaggiarmi con calma le reni stanche, i piedi cotti dalle scarpe, la schiena… anche se non ci si arriva mai bene come si dovrebbe a lavarla tutta! Questo è il motivo che mi spinge a credere che siamo fatti per vivere in coppia, in modo complementare. È l’unico maniera che abbiamo per riuscire a grattarci il dorso e baciarci i gomiti. Matematico!

L’harmattan soffia leggero e operoso, nella notte scura come un imbianchino senza partita iva, procede al suo lavoro clandestino, posando polvere e terra ovunque senza farsi notare. Il mio esperimento sensoriale procede, scandaglio palmo a palmo i lembi della pelle, raccolgo l’acqua in una mano e me la verso sul capo, sulle spalle. Chissà se avrò davvero sciacquato tutto il sapone che avevo addosso. Devo affidarmi alla memoria tattile per capire i punti in cui sono già passato e quelli che devo ancora lavare. Chiudo il rubinetto e mi asciugo. Mi sento sorprendentemente bene, l’operazione si è rivelata un tonico molto più potente di quello che pensavo. Esco in cortile a guardare la luna. Prima di congedarsi Christian mi racconta che nei villaggi, in notti come queste, i bimbi cantano omaggiando l’argenteo pallone celeste, gli adulti in disparte battono le mani. Si fa festa fino a tardi, si gareggia alla corsa, approfittando del clima fresco e della luce gratis. Ricorda la sua infanzia, i suoi genitori e tutta la comunità del villaggio di Mokolo in cui è nato e cresciuto. Si andava a letto vestiti di polvere senza nemmeno lavarsi. Una vita semplice, ridotta al necessario, ma la felicità dipinta sul suo volto mentre rimembra quegli istanti è inequivocabile: dev’essere stato un tempo magnifico. Allungo il collo verso gli astri, un po’ come quella grande tartaruga faceva addentando le bucce dell’anguria, il blu e l’argento danzano insieme, è una lotta tra il chiaro e lo scuro, una reciproca resistenza amichevole. Somiglia ai giochi con cui si intrattengono i cuccioli di giaguaro, dallo spirito guerriero, ma ancora troppo piccoli per farsi male sul serio. Non resta che abbandonarmi ai piaceri di Morfeo, impossibile resistere al ruggito della stanchezza.

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