20 febbraio – Bollito nel cervello

Una zanzara infame mi ha svegliato alle 3 di notte. Ma perché succede sempre alle 3? Cos’è l’ora dell’aperitivo? Non ho capito.

Mi sono addormentato con l’Autan in mano alle 4 e mi sono risvegliato alle 6. Sempre lei. Bastar*a. Ho agitato le mani in aria a cagnolino, ma ad occhi chiusi non so quante probabilità di successo avessi nel tentare di ucciderla. Alle 8 mi alzo completamente rimbambito.
La sera leoni la mattina… già sapete! Non solo gli insetti hanno fame, anche i mammiferi, tipo me e Christian, sentono il bisogno di nutrirsi. E molto seriamente per giunta.

Decidiamo di fermarci al ristorante “Titanic” per mettere qualcosa sotto ai denti. Il nome del posto non preannuncia nulla di buono. Il cameriere ci propone del “Bouillon” tra le varie scelte. Il mio socio strabuzza gli occhi come se avessero offerto la manna dal cielo. Ma cosa sarà mai sto Bouillon? Dalla faccia sembra buono.
“E’ tipo una minestra!”. Possibile che l’energumeno abbia espresso tanta golosità per una minestra? Qualcosa non torna. Lo ordino anche io. Bisogna buttarsi, farò loro vedere che anche i Nassara fanno colazione a pane e minestra. Da bere un buon caffè in polvere, giusto per dimostrare il nostro buon gusto… inesistente.

Pochi minuti dopo il ragazzo si presenta con due piatti fondi, all’interno dei quali spiccano le ossa del bollito di zibù. Quella che doveva essere una minestra è in realtà un brodo di carne. Non fatica a giungere anche il cestino del pane. Pronti via, giù a spolpare l’osso di ginocchio del bue alle 8.30 di mattina.
Che ci crediate o meno, se siete degli spiriti liberi indipendenti, capaci di uscire dagli schemi del “dolce al mattino, salato la sera” o del “sono le 13 è ora di pranzo!”, se foste membri di quella categoria che non ha orari, che mangia anche quando ha fame oltre che quando è ora e che divora lo scibile edibile senza preferenze troppo sofisticate perché, se una cosa è buona (tipo la parmigiana di melanzane) posso benissimo addentarla anche di prima mattina, se siete gente che fa l’amore con la luce accesa, ma anche con la luce spenta, di sera, di mattina, al pomeriggio, quando si vuole e quando si può e a volte anche quando non si può (dato che rompere i tabù piace a tutti), allora il bollito camerunense delle 8.30 vi piacerà e molto. Il caffè in polvere un po’ meno, ma è del tutto comprensibile.

Talmente mi fa bene alla salute che, finito il pasto, non sento alcuna stanchezza, anzi il rimbecillimento derivante dalla mia nottata movimentata è ormai solo un ricordo lontano. Ma quando si è in due c’è una variabile che dovrebbe essere sempre tenuta d’occhio. Potrebbe infatti essere l’altro membro della diade ad avere un calo d’attenzione. Ci avviciniamo alla macchina e Christian non trova le chiavi. Eccallà! Te pareva. Meno male che ho lasciato per combinazione il finestrino del mio sportello leggermente abbassato, un cameriere magrolino dalle leve affusolate ci soccorre aprendo la portiera. Le chiavi non sono però all’interno dell’abitacolo.
Un anziano che passa si intromette, giustamente è suo dovere rompere, apprezzo molto la devozione e la responsabilità di questi cittadini modello.

Mentre il vecchio si convince di poterci dare ordini indicandoci possibili luoghi in cui cercare, io entro nel salone interno e cerco invano il ferreo oggettino, sperando di scorgere l’elefantino in legno che il buon Christian orgogliosamente sfoggia come portachiavi. Niente nemmeno qui. Christian esulta, il vecchino mi chiama: “fermati non cercare più fermati!” come se stessi scavando in miniera… sono già fermo sto semplicemente guardando verso il basso, va beh non ci provo nemmeno a spiegarglielo. Il mio caro amico nero le aveva nel taschino della felpa, luogo insolito per le sue abitudini, tuttavia, a mio modesto avviso, prima di dare l’allarme e di quasi ingaggiare uno scassinatore abile ad aprirci la macchina, avrebbe potuto guardare che ne so, così per dire, nelle tasche!

Non è grave comunque, anzi la cosa mi solleva, per la prima volta non sono io a sembrare altrove con la testa. Qualche ora più tardi mi pentirò di aver pensato con tanta malizia.
Sosta al supermarket, di sicuro suor Miriam ci inviterà a pranzare con loro, malgrado tutte le difficoltà in cui incombono, e certamente ci offriranno la qualunque.
Non possiamo presentarci a mani vuote, non vogliamo! Chri acquista 50 kg di riso, 10 litri d’olio, 10 kg di zucchero. Io 5 pacchi di biscotti formato gigante e un secchio di Tartina da tipo 1 kg. Il nostro arrivo desta la gioia di tutti. Suor Miriam è molto colpita dai regali, non dovevamo dice, giurerei di aver scorto negli occhietti vispi qualche lacrima velata.

Scarichiamo i sacchi di riso e il pacco con l’olio e lo zucchero. Dopo un po’ estraggo anche i sacchetti con i biscotti e con la nutella africana. Me li metto vicino alla sedia, non per cattiveria, ma solo perché non so dove poggiarli. Forse il messaggio non è chiaro, guardo le suore e dico: “ovviamente anche questi sono per voi eh!”. Il cioccolato, o la golosità, ha un potere incredibile, per la prima volta in vita mia ho sentito una suora dire le parolacce: “Merd! Per noi?”. Rido di gusto. Sapete, spero che non leggiate questa descrizione pensando che io mi stia dando delle arie o mi stia gonfiando il petto per le buone azioni compiute.

Vi invito a leggerla con un’altra chiave. Egoisticamente parlando sono giunto personalmente ad una conclusione. Quando la vita ci lancia l’opportunità di essere altruisti, quando ci ritroviamo nella posizione di poter aiutare, o quanto meno fare qualcosa per chi allunga le mani in segno di bisogno, non è chi ci incontra ad essere privilegiato o fortunato, bensì siamo noi ad avere la chance di diventare, con un piccolo gesto, migliori di ciò che normalmente siamo.
Senza il male non esiste bene. Senza la fame non c’è sazietà. Tutte le più meravigliose dinamiche del mondo esistono in funzione della presenza delle peggiori.

Il simbolo dello Yin e dello Yang riassume benissimo questo concetto. Una punta di nero nel bianco ed una punta di bianco nel nero. Non si può godere del sollievo che si prova nello scorgere il brillare della luce in fondo al tunnel, se non v’è oscurità. Così suor Miriam ci ringrazia, ma la verità è che sono io ad doverle essere grato. Sono io quello che donando ha guadagnato. Sempre io quello che può scrivere a fine serata facendo il figo con questo sermone. Non c’è vanteria, non ho fatto niente di speciale, sono state loro a farmi sentire importante, la loro gratitudine mi da l’illusione di aver compiuto chissà quale eroismo. Viene tutto da loro. Senza quella necessità il mio gesto sarebbe sterile. Se vi regalassi dei biscotti, per quanto buoni, la vita vi cambierebbe poco, mi rivolgereste un grazie posato e leggero e sarebbe giustissimo così. In più si deve considerare che è davvero facile dare tanto quando si ha tanto. La vera grandezza sta nel donare tutto quel poco che si ha.

Ma basta con la lezione di etica, torniamo alle cazzate. Ci sono delle Jeep militari vicino allo stabile. Non sono affatto tranquillo. Boko Haram? Guerra? Ma va là, son dei traffichini insulsi. In pratica cosa fanno. Dato che la benzina in dotazione all’esercito è della miglior qualità, i nostri omini mimetici si allontanano nelle campagne per vendere qualche litro del loro serbatoio ai commercianti di contrabbando. Un modo rapido ed efficace per racimolare qualche moneta. Il mio compare fiuta il business e non perde l’occasione per fare il pieno al pick-up, non appena le due jeep hanno sgomberato il campo.  Mentre lui travasa con l’imbuto il combustibile, io devo raccogliere i nomi, l’età, le storie e le foto di 126 marmocchi e ho un paio di giorni di tempo per riuscire nell’impresa. Il censimento è davvero faticoso. Considerate che mi è scaduto l’abbonamento di Office e sono in Africa con un portatile che può supportare la creazione dei miei documenti solo su dei fogli di testo. I bambini sono timidi e non si capisce una bega di quello che dicono.

Sembro uno di quei Babbi Natale del supermercato mezzo rincretinito da una vita di precariato e di alcol scadente, devo chiedere loro di ripetermi i nomi 3 o 4 volte per poi rivolgermi al buon Christian a suor Miriam per avere conferma. Dopodiché mi devo alzare dalla sedia, cercare un punto ideale per scattare le fotografie e immortalare i sorrisi (quando mi va bene) dei giovincelli. Per non parlare del fatto che sotto ad ogni nome devo scrivere quale sia la foto corrispondente, altrimenti riconoscerli è un casino. Alle 13.30, dopo 40 nominativi veniamo invitati a pranzo. Sul desco c’è il mondo: spaghetti al pomodoro, carne al sugo, carne in bianco, couscous, verdure, patate, riso, 3 bottiglie di coca-cola. Manca l’acqua, la stanno portando.

Nel senso letterale del termine, non c’è acqua minerale al centro e hanno spedito apposta a qualche chilometro di distanza un ragazzo per prendercela, rigorosamente a piedi. Capite cosa intendo quando dico che dare tanto quando si ha tanto non vale? Questi non sanno come pagare la corrente, non sanno se mangeranno a fine mese e tirano fuori la coca-cola delle grandi occasioni.

Onoro l’ospitalità, mangio di gusto e anche abbastanza avidamente, ma senza esagerare, quello che avanza se lo spartiranno tutti, bisogna esserne consapevoli prima di attaccare le pietanze. Suor Miriam ogni tanto ci guarda di sbieco, è preoccupata, ci tiene così tanto che i suoi ospiti si trovino bene, ma non è sicura che ci piaccia il cibo, e se non dovesse piacerci cosa proporci in alternativa quando di alternative non ce ne sono?

Nel mentre che lei si agita io ho già finito la pasta e passo al secondo. Vedendomi pimpante ed operativo si rilassa, stiamo mangiando, tutto e in silenzio, segno che il nutrimento è di nostro gradimento (fa pure rima). A fine pranzo i ragazzi desiderano intrattenerci con die balli e dei canti tradizionali. Seduti sulle nostre seggioline blu di plastica assistiamo allo spettacolo arrangiato apposta per noi. La batteria della mia action-cam si sta scaricando, estraggo la powerbank, tenete bene a mente questo passaggio.

Alle 15 si riprende. Sono arrivato a quota 80. Non giurerei di aver scritto correttamente proprio tutti i nomi, ma ce l’ho messa tutta. Domani, dopo la messa torniamo per tentare lo stacco finale. Sono cotto. Ho ricevuto 3 telefonate, risposto a mille messaggi, letto 3 o 4 mail importanti, fatto foto più o meno decorose, 2 per bimbo, mi sarò alzato dalla sedia e riseduto almeno 80 volte. La cosa divertente è che Christian e suor Miriam, che di fatto mi hanno aiutato ma in minima parte, sono ancora più stravolti di me. Non è facile stare dietro alle mie domande mentre un centinaio di piccoli, 30 capre, 10 asini e la gente intorno creano confusione. Raccogliamo tutto e ci salutiamo. Ci vediamo domani. Devo mettere in carica tutto, ho le batterie quasi a zero.

Apro lo zaino, computer, action-cam, caricabatterie numero 1, caricabatterie numero 2, cellulare, power… un momento! Dov’è la mia amata powerbank? Non sono il tipo da dimenticarmi gli oggetti in giro. Sono troppo venale e materialista per errori simili, piango per buttar via uno spazzolino, non mi soffio il naso finché non trovo il pacchetto di fazzoletti già aperto, non posso averlo lasciato al centro. Non ci credo! Ma come ho potuto? Me lo ha regalato mio zio, ha pure il pannello solare per ricaricarsi… più penso a quanto è bello più crescono le probabilità che sia stato smembrato e venduto al mercato nero. In Africa è così non crediate. Mi ha detto Jojo che una volta gli hanno fregato le chiavi di casa per rivendere il ferro e fare qualche franco. Allucinante. Figuriamoci il mio adoratissimo marchingegno. Chiamo suor Miriam, non risponde. Mi vien da piangere, mi sto arrabbiando. Va beh direi che anche oggi diventiamo grandi domani.

Meglio farsi una doccia. Abbiamo prenotato la cena per le 19.30. Ma perché me lo son dimenticato? Mi son bruciato il cervello raga, è così, ho rotto tutti i neuroni specchio, sicuro. Son da buttare. Per cena abbiamo: patatine fritte, riso bianco e una bella bistecca al sugo. Il cibo come sempre colma tutte le mie carenze d’affetto, anche quelle più voluminose magari dovute ad una powerbank superba dimenticata in un luogo sperduto della savana.

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