9 febbraio – Evasione
La sveglia non suona da un po’. La vita da rockstar non fa molto per me, è l’unica dinamica per la quale possa avvalermi della frase: “non ho più 15 anni!”.
Preferisco avere dei programmi anche se, per pigrizia, mai troppo serrati. La cosa più strana è che non esco di casa da una settimana.
Non mandatemi a quel paese vi prego.
Tra la malattia e la quarantena del centro mi sono un po’ perso. Avranno trovato qualche caso positivo si o no? Sophie ha il Covid? Siamo sicuri che tutti siano in restrizione?
A furia di starmene nella mia villetta tra i banani, con le finestre serrate per evitare di lasciar entrare ospiti indesiderati come l’invisibile (ma letale) Harmattan, non ho proprio idea di come buttino le cose nel mondo circostante. Sono le 8.40 e decido di metter giù una tabellina di marcia, dunque vediamo, cose da fare: valigia… poi? Poi basta dai. E’ stato piuttosto facile.
Odo la voce di suor Nicole dalla distanza, mi chiama. Mi affaccio in veranda, pallido più di un lazzaro dopo tre giorni
di sepolcro. Il medico dell’ospedale ha detto che nessuno nel centro ha il Covid, sta girando una forma leggera di malaria, qui ha procurato parecchie grane soprattutto alle ragazze e ai bambini. Anche Sophie sta meglio, va via via rimettendosi in sesto. Le donzelle della maison hanno avuto il permesso di rientrare a scuola oggi.
Pian piano la vita riprende il suo corso. I piccoli se la passano maluccio ma Nicole li sta lavando in calde vasche di artemisia, con una coperta sul capo per respirare i vapori esalati dall’erba medica in infuso. Un rimedio piuttosto omeopatico ma, a detta sua, anche efficace. Non me la sento di controbattere, anzi, elogio lo stile sciamanico della terapia, chissà che, una volta rientrato in Europa, io non faccia lo stesso tra le mura brianzole.Tutto piuttosto che prendere un oki.
Ma quindi si può uscire o no? Nicole è già partita. La donna ha la medesima condotta anche durante le telefonate, in genere quando finalmente sta a me la parola, lei ha già attaccato da una trentina di secondi. In Africa può essere anche così, va colto l’attimo.
Come sempre Godyene si presenta per impossessarsi della cucina, suolo sacro e invalicabile (dopo vi spiego perché).
Squilla il telefono, è Christian, domani saremo insieme, la macchina va come una Ferrari… su strade di terra rossa e polverosa stracolme di buche. Velocità di crociera stimata intorno ai 35 km/h. Meglio che niente. Ci aspetta una bella zingarata verso il caldo torrido. Mi prende in giro: “lì da voi il tempo com’è? Fa freddo? Devo portare il maglioncino? Magari per la sera…porto anche i dopo sci va bene?”
Io ovviamente gli do corda.
La battuta sul clima temperato di Marza, mediamente a 30 gradi, mi fa intendere che i discorsi di Delphin e Nicole riguardo ai 45 gradi all’ombra non fossero esasperazioni scoraggianti della realtà, bensì fatti oggettivi nudi e crudi. Consiglio: portare il cappello. Direi che nel mio caso è obbligatorio.
Garoua è la capitale della regione nord del Camerun conta una popolazione di circa 1 milione e 700 mila abitanti. Unico mio cruccio: riuscirò mai a trovare una chitarra vera laggiù nel deserto? Incrociamo le dita.
Si son fatte le 14 e i secchi d’acqua del mio bagno sono all’asciutto. Sentite, io nel dubbio me li vado a riempire. Non c’è norma che tenga, devo lavarmi sta sera. Panama, calze, scarpe…fa effetto vestirmi, dopo sette giorni di infradito domestiche non sono quasi più abituato. Afferro i contenitori e mi dirigo al pozzo.
Ornella, Elizabeth e Rosalie stanno lavorando nei dintorni. E’ passato troppo tempo dall’ultima volta che ci siamo visti, sono loro mancato, e molto.
Il mio ego si gonfia d’orgoglio come un inutile pavone davanti a certe carinerie. Sono felice di vederle, sinceramente, mi fa anche molto piacere constatare che tutte e 3 siano in salute. Nessun segno di tosse, raffreddore o sintomi antipatici sui generis. Sentendomi clandestino fuori dal perimetro domiciliare, mi sbrigo ad attingere il prezioso fluido. Qualcuno ha attaccato un sasso al secchio, forse dopo aver visto quanto il nassara sia impedito nell’arte del lancio, ora riempire il plastico cilindro è più semplice. Sollevo i recipienti e torno nel mio recinto civilizzato.
Che voglia di uscire ragazzi, immagino voi possiate ben capire. E’ come una droga, una dipendenza fortissima. Appena assaggi un pezzettino di libertà, ecco che ne vorresti a quintalate, senza ritegno, anche più del necessario.
Ho finito la connessione alle 16, peggio di ieri. Ultimamente me la sto gestendo malissimo.
Il telefono quindi non è altro che un telefono (appunto), limitato in tutto il resto, utile solo a fare ciò per cui è stato principalmente progettato, ricevere e inoltrare chiamate. Pazzesco, mi sembra inconcepibile. Rimango poi ancora più sorpreso nel leggere il numero camerunense sul led, qualcuno mi cerca, chi sarà?
Christian forse? Rispondo in italiano, convintissimo che si tratti di lui. Dall’altro capo la replica in lingua è più faticosa e masticata: “pr…o…nto Valeryo”.
Inconfondibile timbro: Manssè. Ma va? Dai non mi dire! Ha fatto la ricarica sulla sua sim MTN (per la prima volta in assoluto da quando l’ha comprata) solo per potermi sentire, è dispiaciuto per non avermi visto tutta la settimana, gli sono mancato molto, come sto? Sono stato malato? Sono a casa?
La raffica di domande non è affatto fastidiosa, il mio amico ha la posa di un bradipo felice, è delicato e discreto nell’incedere, non disturba, anzi lusinga.
Inutile dire che anche io sono onorato e contento di avere sue notizie, vorrei vederlo, fare quattro chiacchiere. Possibile che non si possa uscire? “Ma appunto Manassè te hai capito se siamo confinati o possiamo fare un giro?” Vorrebbe venire da me, ma purtroppo per la normativa…va beh però se restiamo a distanza, con la mascherina, sulla veranda si può fare no? Lui pensa di sì. Lo aspetto, devo ancora dargli i biscotti che abbiamo comprato insieme domenica scorsa.
Arriva in un lampo. Ho un succo al pompelmo (che anche lui come me apprezza molto) pronto da offrirgli, una bottiglietta di tonica e i dolcetti.
Mi raccomando, da spartirsi equamente tra i vari bimbi sperduti. Ci si stringe la mano in barba alla legge. Non facciamo in tempo ad accomodarci sui gradini del portico che io, mefistofelico, lo induco subito in pensieri impuri. “Senti ma cos’è sta musica che sento? Arriva dalla scuola? C’è una festa? Sarebbe bello andarci…”
Un po’ titubante replica: “C’è un torneo di calcio qui al college, per il confinamento non so, beh io ho sempre la mia mascherina con me…”
Non lo lascio nemmeno finire: “Aspetta metto le scarpe!”
Mascherina, calzature, chiavi di casa. Tanto agognata libertà. Roba da mettersi a baciare il suolo come Robinson Crusoe, cara grazia che il terrore della tenia o di qualche altra minaccia nefanda mi trattiene dalle solite buffonate. Pochi passi e già Num Num grida il mio nome. “Bonjour Valeio!”. Sento di riacquistare i miei poteri, sto già ringiovanendo al grido del pischello.
“Bonjour Num Num!”. Poline batte le mani, Prisca, Nadesh, Chantal e Jaqueline mi salutano all’unisono. “Siete tutte più belle dopo una settimana che non vi vedo!” sorrisi generali.
Tutti gioiscono nel vedermi sano e vitale come sempre. Ammetto che è proprio una sensazione avvolgente.
Si percepisce lontana un miglio la loro sincerità. E’ qualcosa che fa bene al cuore. Delphine e Pelagine arrivano con Edith, Moes e Michael. Il Camerun ha perso 4 a 0 col Marocco. Sono tutti col morale a terra. Tutti meno me e Manassè, che del calcio poco ci frega. Per solidarietà ci uniamo allo spirito funereo per qualche secondo, intratteniamo i nuovi trovati e ci congediamo verso la scuola.
Il cancello è sbarrato con tanto di catena e lucchetto. Qualcuno ci grida: “Chiuso, Corona!”
Il mio socio è troppo un dritto per arrendersi davanti a così poco, tagliamo nell’orticello sulla destra approfittando del grosso buco della recinzione sulla destra.
Attraversiamo lesti, senza dar troppo nell’occhio, ci immettiamo sul viale e trionfalmente marciamo sul territorio di padre Adolf.
Due grossi pali di legno all’estremità del cortile, di solito solertemente nettato dagli studenti in punizione, si stagliano sotto al sole delle 17.
Sono le porte del campo di calcio. La squadra della scuola ha la divisa, sono i verdi, gli avversari invece non se la possono permettere e viaggiano spaiati.
C’è un gran caos. Alcuni tra i colorati (non è una battuta razzista!) indossano i pantaloncini della divisa scolastica sotto le magliette variopinte.
Gli occhi dei ragazzi, impegnati dall’agonismo e dal sudore, a volte si confondono e comandano al piede passaggi errati. Il volume della musica è altissimo.
Ci raggiunge un soldo di cacio. E’ alto per la sua età ma smilzo. Mi ricorda qualcuno, ha dei tratti familiari. E’ il fratellino di Manassè, ovviamente, non che con volesse un genio per capirlo!
E’ da parecchio che non gioco all'”indovina chi”, abbiate pazienza. Mi faccio ripetere il nome due volte, non vorrei mai ometterlo dal mio scritto quotidiano…e invece è andata proprio così, pardon!
Le due Marie mi vengono incontro saltellanti, sono mancato anche a loro, quanto tempo che non ci si vede. Anche Marcelin e Bienvenu sono in giro.
Ve l’ho raccontata la storia di Bienvenu? Costui è un vatusso altissimo, super gentile. Nutro una certa simpatia nei suoi confronti soprattutto per una storiella buffa che mi riguarda.
Appena ci siamo incontrati, durante il primo giro al centro con Sophie, ormai più di un mese fa, nel presentarci mi aveva detto “Bienvenu”, giustamente, perchè così si chiama. Purtroppo però, non capendo una ceppa di francese all’epoca (perchè oggi invece spacco!) pensavo fosse una cortese forma di accoglienza e non il nome
proprio. Qualche settimana dopo, nel rimbattermi in questo infermiere sottratto alla pallacanestro, mi sono presentato nuovamente: “piacere Valeryo”. Mi ricordavo bene di lui ma, non avendo ancora capito il nome, speravo me lo dicesse in questa seconda occasione. Risponde: “Ma ci conosciamo già! Bienvenu”.
A quel punto dico: “Grazie, hai ragione ma io ho dimenticato proprio il tuo nome!”
Quasi piccato di rimando:“Bienvenu”. Per un po’ ho davvero temuto di essere catastrofico col francese. Dicevo a me stesso, certo è gentile mi avrà dato il benvenuto 2 o 3 volte, però poverino non capisce niente di quello che dico. Possibile che anche queste frasi elementari io le pronunci così malamente? In genere la gente mi ha sempre capito? Cosa c’è che non va?
Mi guarda: “Io mi chiamo Bienvenu!”. “Aaaaaah… ora capisco!”. Figura di M***!
Ma ne è valsa la pena perché oggi, appena l’ho visto ho urlato: “Hey Bienvenu, vedi che mi ricordo! Come va?”. Errare è umano, perseverare…Valeryo.
Sto giochino del nome mi piace, mi sa che lo ripropongo al battesimo di uno dei miei sventurati futuri pargoli. Poverini.
Ricordo che da ragazzino pensavo di chiamare il mio primo figlio “Culo”. Vi immaginate in classe durante l’appello? “Falcone Culo?” “Presente!”. Che magia.
Ho scoperto però che è un tantino difficile convincere il prete a procedere in tal maniera. La chiesa non è ancora pronta a certi ammodernamenti anagrafici.
Va beh, io non ho mica fretta, posso aspettare!
Si balla, si scherza, i verdi fanno goal su punizione. L’atmosfera è davvero liberatoria. Dev’essere così che si sente un carcerato appena messo piede fuori dalla cella.
Che sia per evasione, buona condotta, fine pena, la prima tirata d’aria è molto più che un insieme di idrogeno e ossigeno. Diventa un’emozione, qualcosa di travolgente, commovente. Non capita tutti i giorni di ricordarsi cosa vuol dire sentirsi vivi e, forse, si tratta di un privilegio per pochi.
Aiutiamo le donne con il trasporto dei secchi e bussiamo alla grande porta rossa. Laeticia, Larisse e Aisha sono piuttosto malconce. Tossiscono di frequente e sembrano molto affaticate. Non credo sia Covid, pare più, ripensando alle parole del dottore, una lieve forma di paludismo. Non pensavo di trovarle così malmesse.
Non posso entrare in casa, chiacchiero con loro a debita distanza seduto sulle scale del porticato. Tra un giorno parto verso il nord, starò via un mese.
Non avevano fatto in tempo a gioire per la mia guarigione che già tocca loro sentire la mancanza del nassara per 3 o 4 settimane.
Non riesco a capirle e nemmeno bene a capirmi. Quand’è che abbiamo stretto un legame così intenso?
Voglio dire, lasciamo perdere il sottoscritto, faccio fatica a gettare uno spazzolino da denti, figuriamoci. Emotivamente sto messo un colabrodo, non è una novità. Ma loro. Tutti loro. Manassè che mi chiama, giocandosi quei 500 franchi
fondamentali per dirmi che gli manco. Le ragazze che mi saltano in braccio entusiaste.
Verrebbe da pensar male, sono certo che qualcuno di voi lo sta già facendo. Sono bianco, rappresento il loro passaporto per l’emancipazione, il mio colore rimanda a ricchezza, non è così? Chiamatemi ingenuo, sognatore, sciocco, fate come vi pare, io dico che le cose stanno diversamente.
In Africa gli amici, anche adulti, senza malizia alcuna, si tengono per mano, i rapporti tra uomo e donna non si riducono sempre a relazioni sentimentali, ma sussistono nobilmente e castamente in splendide amicizie. C’è senso del pudore qui, si prova ancora vergogna nel non mantenere la parola data. Ci si fida ancora, a volte, di una promessa.
Si prega l’un l’altro per il bene reciproco. Quando ci si incontra non ci si limita alla formalità. Imbattersi in una persona lungo il cammino è sempre un evento ed una chance per diventare migliori di ciò che si è.
Più altruisti e generosi, ad esempio, trovando il tempo che non si ha per ascoltare bene chi gli sta davanti, per cogliere alcune crepe sottili nel tono di voce, il tintinnio che potrebbe significare un problema nascosto nel cuore dell’altro. Si riflette per porre la giusta domanda, quella chiave utile ad aprire i sentimenti dell’interlocutore e a far sì che questi possa trovare, non dico una soluzione, ma quantomeno conforto, nella pazienza e nella disponibilità.
L’uomo è al centro della vita di ciascuno. Molto più degli oggetti. Forse perché la loro fortuna sta proprio nel non possederne molti.
Non c’è animale, pianta o edificio capace di catturare l’attenzione di un africano, più di quanto non sia in grado di farlo un essere umano.
IO CI CREDO…che la sensibilità sia una virtù comune e non rara, la felicità stia nelle piccole cose e non nel continuo appagamento del desiderio, l’uomo sia al fulcro e non ai margini dell’esistenza. Credo che ci sia ancora motivo di nutrire speranza.
Occhei diamo un taglio ai sentimentalismi con un fatto di cronaca: Godyene si è letteralmente incaz*ata perchè ho lavato una padella. Essendo unta l’aveva lasciata a mollo nell’attesa che si scrostasse un po’, non che la pulissi io. Si sente in colpa, si scusa per avermi fatto lavorare. Le spiego che assolutamente non è il caso, che il mio intento era proprio quello di farle trovare la cucina pulita e libera per lei. Non c’è verso: “Valeryo tu sai no che in genere non è mai bello mettersi a fare il lavoro di un altro!”.
Mi sono dovuto scusare e ho dovuto promettere di non toccarla la prossima volta.
Su che pianeta siamo, qualcuno lo sa? Mia madre davanti all’inerzia normalmente sfodera la tecnica marziale con cui padroneggia il temutissimo uso delle cucchiare di legno, arte antica tramandata di madre in figlia per millenni nelle tribù meridionali italiane.
Qui si arrabbiano se aiuto in casa. Mi chiedo che razza di stranezze possano celarsi scendendo al di sotto dell’equatore.
Non si finisce mai di imparare!