16 gennaio – Bagagli culinari

Ho passato una notte travagliata.

Alle 22 sono andato a letto puntando la sveglia alle 24.

Sì, perché a mezzanotte mi si riattivano i giga a disposizione e posso mandare notizie della mia sopravvivenza alla “famigghia”. Quest’ultima ha diritto e dovere di sospirare nostalgicamente la lontananza del primogenito, se non lo facesse mi offenderei!

Mi sveglio quindi di soprassalto, invio un cenno di vita sul gruppo WhatsApp parentale e mi accorgo che ho dieci messaggi arretrati a cui dover rispondere.
Adempiere a questo compito rischia di farmi passare quasi tutto il sonno. Sono uno di quelli che fa fatica a riaddormentarsi quando interrompe il flusso del riposo. 24.30 ci riprovo. No anzi, metto la sveglia alle 5.30 per caricare il racconto del blog rimasto arretrato.

Se mi alzo così presto è soltanto perché poi, alle 6.30 mi incamminerò con le ragazze verso la casa di Monsignor Yves Plumey dove alle 8 inizia la catechesi per tutti i membri del centro. Mi appisolo ma 4 ore passano in un lampo. Mezzo rimbambito accendo il pc e adempio al mio reportage. Cosa indossare per un evento tanto speciale? Forse è il caso di riesumare la mia camicia verde comprata l’anno scorso in un mercatino indiano.
Roba da battaglia ma con un tocco di personalità, adattissima per affrontare la polvere rossa delle strade di Marza. Non resta che aprire la valigia dunque.

Non dovrebbero esserci problemi… è un’operazione che ho già compiuto in modo ricorrente. Ricorderete il giorno in cui non trovavo il pennello da barba! Solo in quell’occasione l’ho svuotata e riempita svariate volte. Inserisco la combinazione e… niente. Non pensavo che anche le valige facessero sciopero. Oggigiorno proprio tutti rivendicano i loro diritti.

Robe da matti!

Quanti danni ha fatto Marx col suo “Capitale” nemmeno se lo immagina. Riproviamo va, sarà il caso di farla finita con queste proteste, è meglio per te se collabori, lo dico per il tuo bene (sì, sto parlando con la valigia). Niet. Scombino le tre rotelline dei numeri e reinserisco il codice. L’ermetismo di Ungaretti non è niente in confronto: sigillata! Eppure è strano, dovrei aprirla facilmente.

Prendo un chiodo e la pinza, esercito una forza opposta a quella che la tiene serrata, infilo il chiodo nella piccola fessura e con la pinza sferro qualche colpo. Non ne vuole sapere. Per correttezza devo confessarvi che la valigia in questione non è mia, bensì della cara Leila, la quale ha dimostrato grande fiducia nel prestarmela, a quanto pare commettendo un gigantesco errore di valutazione (sei stai leggendo SCUSA LEILA!)

L’unica constatazione consolatoria è quella di osservare la qualità antifurto che la mia nemica usa per farsi beffe di me. Per lo meno i malintenzionati avranno filo da torcere. Sono le 6.18 e io ho i pantaloni, le ciabatte e una valigia blindata. Dovrei anche fare colazione entro le 6.30. Ho una sceneggiatura nuova per il prossimo “Mission Impossible” ma non ho la mia camicia verde bottiglia. Non ci siamo. Ironicamente non ho pensato fino a quel momento di provare l’altra combinazione. Sì, perché pensandoci bene io sono arrivato qui con due valigie, identiche, una per me, l’altra piena di doni per i ragazzi. Inserisco i nuovi numeri solo per il rispetto che presto a detti del tipo: “se non è zuppa è pan bagnato!” che più di una volta si sono rivelati provvidenziali. Questa è una di quelle.

Senza il minimo sforzo sento un bel CLACK e l’infame mi si spalanca dolcemente tra le mani. Ebbene lo ammetto, ho passato circa venticinque minuti a litigare e insultare la valigia della povera Leila rischiando di scassinarla solo perché convinto di aver inserito la combinazione giusta Ops! Non ho proprio scusanti, persino il trinomio numerico è di una banalità disarmante. Sono un cretino, stop. Fortunatamente il meccanismo di rimozione che la mia mente impiega ogni qual volta intende superare un trauma entra in funzione immediatamente e così, senza più preoccuparmi di essere uno stolto irrecuperabile, gioisco nell’infilarmi l’indumento color abetone.

Quanti ricordi di viaggio… Faremo di sicuro un figurone!
Rimetto a posto lo sventurato trolley e sono le 6.30. Mangio due banane in una volta, afferro un pugno di arachidi, metto il gilet, calzo le scarpe e mi chiudo la porta alle spalle nel precipitarmi in strada. Il meccanismo di rimozione mentale fa cilecca e mi ricordo di essere un cretino. Ma dove corro? Punto primo son tutte donne e quindi, in automatico, ci sarà da aspettare (luoghi comuni sessisti di cui mi vergogno ma che, purtroppo per le donne, nella mia personale esperienza si sono rivelati veritieri); punto secondo sono in Africa: c’è il fuso! Quante volte devo dirvelo?

Nell’insultarmi da solo a voce alta giungo al portone di ingresso della casa delle ragazze. Avevo ragione, purtroppo o per fortuna. Sono tutte prese dalla colazione e dalla scelta d’abito. Diane sta friggendo le benniè per mia somma gioia. Vengo trattato come un re, dopo avermi fatto accomodare, Pierrette mi allunga una tazza di artemisia fumante e una ciotola di croccanti sferette appena uscite di pentola. Ho fatto colazione solo due minuti fa ma in Africa all’ospite non è consentito rifiutare il cibo.
Ripensandoci ho un certo languorino, vorrà dire che mi sacrificherò! Qualcuno, del resto, deve pur farlo.

Alle 7.00 siamo in partenza. Aisha vuole fare un po’ di foto mentre noi camminiamo tutti insieme per la strada verso la dimora del Beato Yves Plumey. Bestie nei recinti, case galattiche in costruzione nel nuovo quartiere, alberi di mango, i raggi dell’alba ci aprono il cammino. Alcuni bimbi gridano: Nassara! Rispondo al saluto nella lingue fufuldè e loro ci restano di sasso. Godo. Mi ci voleva proprio una passeggiata rinvigorente. Ovviamente, non avendo ancora imparato a stare al mondo, cammino lerciandomi di terra rossa ovunque, indosso i classici calzoni beige che ormai sono imbarazzati cremisi fino alle ginocchia. Giunto all’arrivo mi viene data una pezzuola per ripulirmi.

Domando il perché. Essendo stato già tante volte alla casa di Monsignor Plumey, do per scontata la sacralità che il luogo racchiude per la gente del posto. E’ stata da poco avviata la pratica per la possibile santificazione del defunto Vescovo: un uomo che ha cambiato la faccia della chiesa cattolica nel nord del paese formando preti africani capaci di sostituire i missionari occidentali. Nonché l’uomo che ha riportato una comunità e una vita nel quartiere di Marza costruendo ospedali, scuole, chiese. Avere accesso alla casa, di per sé una reliquia gigante, è per molti un grande onore oltre che un privilegio raro.

Sono proprio un bianco arrogante. Replicano: “vuoi forse entrare nella casa del nostro Vescovo conciato come un maiale?”. Hanno ragione. Ma che fine hanno fatto le mie buone maniere? Ah già, non le ho mai avute. Afferro la pezzuola e mi do una rassettata. Diane si inginocchia per pulirmi le scarpe. Supplico che lasci fare al sottoscritto…mi vergognerei di me stesso altrimenti. Una volta ripristinato il mio aspetto “grunge” possiamo entrare. All’ingresso leviamo le calzature e ci preoccupiamo che i calzini siano ben puliti. Nel grande salone si distendono le Natte per la preghiera.

Siamo in attesa di padre Serge il cui arrivo è previsto per le 9, che qui dovrebbe voler dire le 9.30. Il brillante giovane prete si presenta alle 10. Ricordate padre Serge? Il sostituto temporaneo di padre Alois che ha sviluppato una tecnica di messa interattiva? Non finisce tutte le parole che dice e attende che sia il pubblico a completarle, anche per assicurarsi che non stia dormendo. La mattina scorre piacevole tra un sermone del parroco e i canti vivacissimi del gruppo. Non sembra ma in 40 si può fare un bel casino anche a messa. Rock and roll!!!

Unica pecca: il digiuno. Penitenza dovuta a non ho ben capito cosa. Ci rimettiamo in marcia verso le 14.30. Il sole batte forte e, tipicamente nel mio stile, l’unico giorno in cui il panama da pensionato mi tornerebbe davvero utile, ne sono sprovvisto. L’ho dimenticato in camera nello scapicollarmi inutilmente dalle donzelle questa mattina. Idiota!

Arrivo a casa e l’assenza della pappa pronta di mama Godyene mi mette malinconia. Ho troppa fame per compatirmi, lo avete voluto voi, oggi cucino io! Do una rapida occhiata alla dispensa (un telo di plastica sotto al lavandino con poggiate sopra delle verdure). Dunque abbiamo cipolla, aglio, due pomodori, due mezze carotine marce, olio e sale. Preciso. Faccio un sugo fresco di verdure. Si dia inizio al sacro rituale della preparazione della pasta. Al posto del cuore mi sventola un drappo tricolore. Solo in materia culinaria divento patriottico in modo preoccupante, sono peggio di uno di quei radicali fissati dell’Alabama. Adoro il cibo di tutto il mondo ma non tentate di convincermi altrimenti, siamo i numeri uno in cucina. Sono i nostri piatti ad aver ispirato Raffaello, Leonardo, Dante, Enzo Ferrari.

Dai basta la chiudo qui. Mi bussano alla porta mentre sto pelando le cipolle. Godyene mi trova in lacrime davanti al tagliere. “Stai cucinando?”. La rassicuro sul fatto che siano lacrime di gioia. Vuole vedere come si prepara. Detto fatto, guarda e gioisci mia cara amica!
L’odore del soffritto vola nell’aria ravvivando tutti i colori della casa. Le pareti iniziano a cantare una musica di olio bollente. Il gorgoglio dell’acqua improvvisa una linea di percussioni. La mia aiutante è decisamente competente, il risultato non può che essere decoroso: VOTO 7!
Posso fare di meglio, ma come prima volta con queste padelle e i nuovi fornelli non devo lamentarmi.

Invito Godyene ad assaggiare. Ci spariamo un pranzetto all’alba delle 16. Due chiacchere tra amici, si parla di religione (siamo partiti dalla pasta che, non me ne abbiate, ma per me si avvicina parecchio all’argomento), di amori, di amicizie, di viaggi, di progetti.
La mia commensale è molto felice e al contempo sorpresa di gustare la penna rigata NON SCOTTA! Le rivelo che in Italia siamo abituati a mangiarla più o meno così.
Non ho l’olio d’oliva con me quindi non posso proprio dire di aver fatto un piatto al 100% italiano, tuttavia nei limiti delle mie possibilità ho creato qualcosa di parecchio somigliante. Lavare stoviglie e cucina ci porta via un’altra buona mezz’ora. Morale: sono le 17. Recupero una videochiamata arretrata con un amico.

Miriam, Bendicte, Brenda, Elizabeth, Angel si fermano tutte con me sulla strada davanti alla scuola elementare. Vogliono salutare il mio socio e allo stesso tempo sperano di tenere incollata all’apparecchio la sua ragazza che, in quanto bionda, rappresenta qualcosa meritevole di studi approfonditi.
Congedatomi virtualmente e analogicamente non mi resta che fare un salto dalle fanciulle per il rosario serale. Le trovo intente a tostare sul fuoco le arachidi. Esatto, arachidi fresche, dritte dritte dall’albero, tostate in un bel pentolone rovente adagiato sul fuocherello in cortile. Me ne offrono un piatto. Aroma, gusto, consistenza, temperatura, caso mai foste amanti della frutta secca, fossi in voi, questa non me la perderei. Altro che i nostri pacchetti di plastica sottovuoto iper salati. Se con quelli una tira l’altra, qui ne mangerei come se non ci fosse un domani.

Non c’è piatto che sia più gustoso di quello condiviso, offro la mia razione (visibilmente più abbondante delle altre per onore della sacra ospitalità) al gruppo, nessuna si tira in dietro, lo spazzolamento avviene in tempo zero.
Nella corte Aisha si sta facendo fare le treccine, Marie cerca qualche arachide nei piatti altrui, Diane lava la grossa marmitta metallica, Monique soffia sul fuoco per scaldare qualche altra leccornia fuori dalla mia portata.

Un’immagine della Madonna troneggia al centro dello spiazzo, proprio dietro al pentolone fumante, pochi germogli verdi tinteggiano il terreno color sabbia, devo dire che un altare così bello non lo avevo ancora visto!

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