15 gennaio – Partite vinte

Mi sono imposto di posticipare la sveglia alle 7.00, un sacrificio necessario.

Ne ho bisogno ed inoltre è meglio aspettare che si calmino le acque prima di ricomparire come un fungo nei confini di padre Adolf. E’ tempo di mettersi all’opera in autonomia, senza aspettare le consegne di qualcuno. Il che per me significa essere completamente in balia di me stesso. Da artistoide distratto non avere ordini o comandi ben precisi, per quanto paradossalmente io sia un sovversivo per natura, equivale a non concludere nulla. Generalmente nei giorni in cui vengo lasciato sciolto mi ingegno una marea di buone idee e poi aspetto che qualcuno le realizzi arricchendosi al mio posto, senza nessun rimorso, data la pigrizia letargica che mi connota dalla nascita.

Oggi miracolosamente ho deciso di portare a termine il documento delle ragazze. Non subitissimo eh, mi alzo verso le 8 e faccio colazione con le verdure avanzate. Godyene entra in casa e mi consiglia di scaldarle, è una buona misura preventiva per evitarsi il tifo. Pur essendo vaccinato, mi passa l’appetito. Un po’ ho paura di morire, un po’ (l’altro 80%) non ho nessuna voglia di sporcare una pentola per scaldare qualcosa che è stato già cotto (ieri) per poi doverla addirittura lavare! Ma scherziamo?

Che fine ha fatto l’adagio: fatti non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza? Di certo Dante non intendeva esortarci a “lavare i piatti” con questo monito monolitico! Mangerò una gustosa e comodissima banana. Due bicchieri di succo nel recipiente vitreo che ho in giro dalla sera prima, un pugno di arachidi e un avocado fresco.
Verso le 9 concepisco l’idea del lavoro come ragionevole. Inizio a tradurre in italiano tutte le storie a mia disposizione. E’ un bel modo di studiare attentamente il passato di ciascuna delle ragazze e allo stesso tempo di ripassare un po’ di francese.

All’alba delle 11.25 mi rendo conto che quattro racconti mancano all’appello. Sono contento perché posso in coscienza giustificarmi dicendo a me stesso che la ragione per cui non porterò a termine l’obiettivo prefissato deriva dal fatto che necessito di materiale fornibile esclusivamente da suor Nicole o da Sophie. Per un lazzarone questa è manna dal cielo.
Mi scomodo addirittura ad inviare un messaggio: “Bonjour, avrei bisogno delle storie di Tizia, Caia, Sempronia e Mevia… NON C’E’ FRETTA COMUNQUE, QUANDO SIETE PIU’ COMODE!“. Che colpo di tacco, guadagnare un weekend con così poco. La vie est belle! (Chiedo scusa alla Fondazione Cumse e a tutti coloro che hanno un lavoro per questa sfacciata confessione, non dubito di essere nei guai, GIUSTAMENTE!).

Esco in veranda verso le 12 e vengo chiamato da un ragazzino smilzo recante in mano un largo piatto di ferro color lilla. Si siede sulle scale, mi saluta e se ne sta in silenzio. Bah, chissà cosa vuole: “Ciao, come ti chiami?”, si chiama Matacon e vive in una casa poco distante dal centro, in famiglia compresi i genitori sono in otto.
Non è a scuola perché non c’è lezione. Non me la bevo. Il piatto gli serve per vendere le cose sulla strada. Matacon avrà si e no 7 anni e, come tutti a casa sua, cerca di guadagnare qualcosa attraverso la vendita dei frutti della terra che coltivano; pomodori per lo più.

Gli offro un bicchiere di succo, due volte. Rifiuta. Gli offro un avocado, ci pensa, verdetto negativo. Gli offro una banana. Annuisce contento. Ne stacco due dal mio caschetto, tanto sono sempre troppe per me che vuoi che sia. Il ragazzo le ripone nel piattone. Non mangia. Attenderà di dividerle con i suoi?
“C’è qualcosa che posso fare per te? Hai bisogno di qualcosa?” Niente, Matacon è in imbarazzo, non riesce a sputare il rospo.

Ho capito che la notizia dell’arrivo di un Nassara è ormai trapelata in tutta Marza se non in tutta Ngaoundéré. Vi confesso che ho avuto un pensiero un po’ infantile. Mi crea del disappunto sapere che per il colore della mia pelle, e soprattutto per le mie condizioni agiate in questa terra, chiunque mi approcci lo faccia con la sola intenzione di avere qualcosa in cambio. Sono gli adulti soprattutto a scompensarmi. Qualunque cosa io offra la accettano in modo impudente.

Ad esempio, un bicchiere di succo diventa una bottiglia. Un pezzo di cioccolato diventa che se ne vanno con tutta la barretta in mano senza nemmeno chiedere se possono tenersela. Se li invito ad entrare in soggiorno mi scoperchiano le pentole per curiosare e capire cosa e quanto mangio. Insomma pur essendo in qualche assurda maniera lecito, ogni tanto faccio fatica ad essere elastico.
Ho forse bisogno di un po’ di tempo. Nel dubbio cerco sempre di essere generoso anche perché non è tanto una questione di magnanimità, davvero mi fanno delle spese abbondanti che non riesco a finire quasi mai.

In un certo senso si può dire che mi facciano un favore a portarsi via i cibi. Sono i modi che mi tangono. Vorrei sentirmi dire un “grazie”, o un “per favore”. So bene che può suonare arrogante e borioso da parte mia ma insomma, almeno far finta di apprezzare un regalo. E’ come se giocassero sul mio senso di colpa, sanno che non gli rifiuterei mai qualcosa, quindi ne approfittano senza vergogna. Proprio per questo ho il dubbio che alcuni di loro non mi rispettino.

Dovrei essere un po’ più rigido, come a dire che non ho alcuna coda di paglia da nascondere, che sia l’occasione giusta?

Chiedo al mio nuovo amico di rivelarmi i suoi pensieri. “Quaderni e penne, in casa abbiamo solo una bic per tutti ed è difficile scrivere”. Questa è la risposta. Nessun giro di parole, nessun “mi piacerebbe avere”, “vorrei tanto”, nada de nada. Ma a chi vuoi raccontarle? Ma va là, siamo seri!

“Davvero quindi non posso fare nulla per te?” “No”. “Non c’è qualcosa che vorresti chiedermi?” “No”.Ti basta stare seduto qui con me?” “Si”. “Ok”.

Ma come occhei?! Ha 7 anni, dovrei avere compassione. Il piccolo fanciullo nel mio cuore sbatte i piedi e dice: “Oh gli hai già dato le banane, non sei mica madre Teresa eh, diamoci una calmata!”. Probabilmente il mio fanciullino interiore è milanese purosangue e imbruttito. Sto in silenzio, lui mi saluta e se ne va. Lo chiamo e gli urlo: “Matacon, se hai bisogno di qualcosa, basta chiedere!”. Non ne vado molto fiero, almeno quello.

Entro in casa e mi metto a leggere. Non ci crederete ma nel mio libro ambientato in Africa l’autore parla proprio di bambini che chiedono spesso penne e quaderni. Premessa, è un libro ambientato negli anni ’70, una vita fa. Tuttavia la spiegazione mi spezza il cuore. Una bic costa dieci centesimi, soldi preziosi per mangiare, molti bimbi non avendo la possibilità di comprare una penna non possono neppure imparare a scrivere a scuola.

Sto male, che cosa ho fatto? Sono un mostro? Merito la gogna! Sgozzerò capretti sugli altari, sacrificherò buoi dalle corna lunate, dirò mille rosari per espiare la mia avarizia.
Prendo un blocco per gli appunti nuovo di pacca, due penne di quelle che ho rubacchiato nei vari uffici (ebbene si, altra confessione, potrei aver fatto razzie di cancelleria nel milanese), infilo il cappello ed esco di casa. Devo trovarlo, Matacon merita un’istruzione!

Godyene mi chiede dove diamine voglia andare in quello stato.
Sono fermo immobile e giro la testa come un gufo a 360 gradi nel disperato tentativo di rintracciarlo. Chiedo informazioni sull’indirizzo di Matacon.
Godyene mi apre gli occhi di colpo: non c’è da preoccuparsi, sono bianco, tornerà lui. Ah.
Chissà come, mi sento un po’ sollevato. Voglio ancora regalargli le cose ma i miei sensi di colpa sono come azzerati.

Non dimentichiamoci che è venerdì. Ho promesso ai ragazzi che avrei fatto far loro un po’ di sport. Dopo pranzo quindi vado a chiamarli. Sono seduti sul tappeto (altrimenti detto “Natte”) intenti a setacciare i fagioli rossi. Mi unisco a loro!
Esigono che io chieda a suor Nicole il permesso per scatenarci.

Manassè giunge in quel momento. “Vado a prendere il pallone!” Al solo sentire la parola tutti si stupiscono. Avuto il lasciapassare del capo ci dirigiamo verso il cortile della scuola elementare. Un enorme spiazzo, piatto e polveroso tutto per noi. DELIRIO cosmico. Al primo tiro partono a correre l’uno contro l’altro come forsennati, chi cade, chi rischia di finire sul filo spinato del recinto, la palla per poco non vola in strada.
Le gambe di Soumaya sono troppo corte per star dietro al folle ritmo dei suoi compagni. Scoppia a piangere indispettita.

Sequestro la sfera, ho perso sette vite in 30 secondi e ho immaginato tre o quattro morti premature nel mentre.
Ci vogliono delle regole almeno all’inizio. Tutti in cerchio. Si dice il nome di chi è destinato a ricevere il pallone e poi si tira. In questo modo si imparano gli appellativi di tutti ma si da anche una direzione intenzionale al calcio. Mi pare un buon compromesso. A loro piace, per 5 minuti poi Noa entra nel cerchio e tira via la palla.. giù ancora a correre. Restringiamo il campo chiudendoci dentro un cortiletto interno molto più piccolo. Così va meglio, ci sono anche giochi per i più piccini.

Soumaya prende una scopa e si diverte a ramazzare lo spiazzetto. Contenta lei!  Ad un certo punto i ragazzi vogliono cambiare disciplina. Esigono la corsa. Tutti in fila per due!
I primi partono con un bastoncino in mano che consegneranno a quelli che più velocemente li raggiungeranno partendo per secondi. Manassè con la sua imperante e smilza figura monitora che nessuno inciampi in Soumaya la quale ha pensato bene, proprio come le donzelle super
provocanti che siamo abituati a contemplare in “Fast and Furious” con le bandiere in pugno, di piazzarsi con la scopetta nel mezzo della pista. La sua non curanza del pericolo è degna di James Bond o di un pazzo furioso. I ragazzi sono agili e svelti, evitano tutti incidenti, qualcuno inciampa, ma niente di serio.

Voglio giocare anche io, mi nascondo il pallone sotto la maglietta e inizio a correre come un cretino. Il primo che riesce a rubarmelo vince…un bel niente. Meglio non dirglielo. Mi ritrovo chiuso in un angolo, stanno per braccarmi quando propongo “la brouette”!

Salvo per un pelo. Arbitro della gara, li faccio predisporre in fila e do il via, Brenda mi aiuta sventolando un ramoscello di albero. Partiti e caduti pochi secondi dopo. Giù a ridere! Rimango colpito dalla grazia di Benedicte, la quale con il suo vestitino delle grandi occasioni, senza sporcarsi minimamente, è capacissima di correre come un razzo a piedi nudi sulla terra. Che classe, abbiamo una futura reginetta tra noi.

Qualcuno, a proposito di grazia, pensa bene di improvvisare una decorazione natalizia, appendendosi ad un albero del giardino. Mentre io li fotografo compiaciuto, Manassè (l’unico vero adulto – ricordo che ha 10 anni meno di me) percependo il pericolo gli ordina di scendere. “Ha ragione lui! Giù forza!” sottolineo per dare una parvenza di serietà. Ci avranno creduto? Non ci scommetterei.

Non faccio in tempo a girarmi che in un lampo me li ritrovo tutti a mangiucchiare qualcosa di bianco e croccante; patate crude, a detta loro, molto buone. Dopo di che arriva l’attesissima gara di piegamenti. Tutti in fila cadetti, io mi metterò di fronte per mostrarvi la tecnica. Uno, due, tre, quattro e mentre arrivo al dieci loro giacciono sfiancati pancia a terra. Un minuto di riposo e poi ripetiamo. Vogliono diventare forti e possenti!

Tempo al tempo, per adesso meglio metterci in cerchio e giocare a qualcos’altro. La gente per strada si ferma a guardare. Qualcuno ride di gusto, qualcun altro commenta le stramberie di questo bizzarro Nassara che scorrazza come un deficiente in mezzo alla scuola elementare. Non li biasimo.

E’ passata un ora e mezza, ma vi assicuro che abbiamo reso per tre.
Selfie di gruppo sulla via del ritorno!

Il cielo ci regala
uno spettacolo superbo. Le nuvole formano come una V bianca, la punta di una freccia, neanche a farlo apposta, diretta verso casa. Nello spazio circostante il celeste si fonde con i primi sbrilluccichii arancioni del tramonto. Alcune ragazze sono fuori dalla loro magione rosa pronte a salutarci. Che sia la V di vittoria? All’inizio lo sospettavo soltanto ma, successivamente, ne ho avuto la conferma.

Entro in casa col desiderio di bollirmi un gustoso infuso di artemisia. Mi si rompe l’infradito. Ma noooooooo!

Avete ben presente il mio venale e patetico attaccamento agli effetti personali. Ma dai! Ci avevo fatto la Sardegna e l’India con queste, non era ancora giunta la loro ora! Il cerchio di plastica inserito nella tomaia si è staccato dal perno che usualmente si frappone fra l’alluce e l’altro dito del piede (come si chiamerà? mi pare che le dita dei piedi, a parte l’alluce, abbiano lo stesso nome di quelle delle mani? Dove avrò sentito sta fregnaccia? Domani verifico e poi vi dico, ammesso che ve ne freghi qualcosa).

Non posso arrendermi così, come ripararla? Anche ad avere la colla non mi servirebbe, bisognerebbe cucirla. Seee mo, va bene che ci ho preso gusto, ma cucire la plastica! Eh però ci potrebbe stare volendo, tempo da perdere ne ho fino a mai, provo, al peggio le getto via.

Prendo ago e filo e una pinza (se ve lo steste chiedendo la risposta è: si, mi son portato la pinza e un paio di attrezzi da casa pur non sapendo minimamente utilizzarli, l’ennesimo scherzo giocatomi dalla codardia pre partenza stando alla quale: tutto può servire). Infilzo la plastica con la punta e spingo la testa dell’ago sul tavolo, piano piano l’oggetto metallico sbuca dal lato opposto. Mi avvalgo della pinza per estrarlo. Stessa manovra anche con il cilindretto, poi faccio ripassare l’ago nel buco e comincio a fare una marea di nodi.

Non ci credo! Pare che tenga! E’ la prima volta nella vita che penso ad una cosa e provo addirittura ad eseguirla. Pazzesco, per quanto stupida sia la tua idea, portarla a termine ti da una soddisfazione eccezionale. Ho fatto una decina di giri di collaudo nel salotto.

Confermo, operazione riuscita. Infradito salva con un intervento da 3 punti di sutura. Una bazzecola!

Ogni dubbio è dipanato, quella nuvolosa V preannunciava un incredibile successo!

 

 

 

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