10 gennaio – Chiamate dall’alto
Mi sono svegliato alle 7.20 per andare alla messa domenicale. Potrei mai perdermi l’unica occasione della settimana per uscire in compagnia?
Nicolà oggi è più in pimpa del solito. Non mi era ancora capitato di vederlo così scatenato e sovversivo. I sermoni di padre Allois traviano le giovani leve che, distratte, impegnano il tempo del rituale per farsi dispetti, schiaffeggiarsi, giocare. Ho deciso di poggiare il lato B nel settore bimbi per rispettare il mio nuovo legame con le panche, boicottando le sedie. Fila tutto molto lentamente come sempre, ho vissuto questa dinamica già così tante volte da essere diventato capace di prevedere il susseguirsi degli eventi.
Proprio quando il finale sembrava già scritto ecco che qualcosa mi prende in contropiede. Jojo, il mio maestro di francese, si alza dirigendosi verso il leggio. Annuncia il programma della settimana in preparazione della festa del patrono prevista per il 2 febbraio.
Dopodiché dice qualcos’altro, io ho mollato la presa, non sto quasi più ascoltando e proprio in quel momento, come quando a scuola la prof riusciva a sgamarti negli unici due secondi in cui, anziché ascoltare lei, pensavi ai fatti tuoi, mi pare di udire un insieme di suoni simili a quelli che normalmente compongono le lettere del mio nome. “Valeryo, oui, s’il vous plaìt” ripete Joseph. “Alzati e presentati alla comunità di Marza: nome, cognome e magari la tua provenienza”.
Vorrei gridare qualcosa tipo: “No! Sono dati sensibili!”. Oppure qualcos’altro tipo: “A nessuno è venuto in mente di consultarmi o quantomeno di avvisarmi prima di incasinarmi in questo pantano a sorpresa?”. O ancora: “ammutinamento da parte delle forze alleate!” Nella mia mente esplodono palle di cannone roventi, la polvere di zolfo delle micce oscura i miei pensieri. Toro seduto incendia le frecce del suo arco e si prepara allo scontro.
Avrò avuto la faccia bordeaux. Mi alzo in piedi guardando verso Jojo, poi con gli occhi seguo la direzione della sua mano e voltandomi mi ritrovo, mio malgrado, faccia a faccia con la folla. Memore di tutti quei video di presentazione tanto di moda sul finire degli anni novanta a causa dell’avvento di reality show e programmi tv tipo “The Club”, metto insieme un paio di concetti mantenendo un atteggiamento distinto.
Ora, ho la faccia rossa, la vena della fronte che pulsa, una goccia di sudore mi scende lungo la basetta, non so se “distinto” sia l’aggettivo più appropriato, ma non ho rimpianti ce l’ho messa tutta: “mi chiamo Valeryo, sono italiano – pausa – enchanté!”. Partono gli applausi a scrosci. Potevo anche impegnarmi un po’ di più per far fare bella figura alle lezioni di Jojo ma… si attaccasse al tram, avrebbe dovuto chiedere il mio parere prima di darmi in pasto alle masse.
Anche Mr. Francois viene chiamato in causa per alzarsi e presentarsi. La vecchia volpe navigata però, scuote dolcemente il capo da destra verso sinistra, rimanendo impassibile. Ecco come la gente di classe esce abitualmente dall’impasse.
Io, invece, in 28 anni non ho ancora capito dove sto di casa, lasciamo stare. Rientrato mi tengo allenato ripassando i fondamentali di francese con la piccola Susu e poi mangio beatamente.
Marcelin sta facendo il pollo alla brace, mi chiama per assistere alla procedura. Devo assimilare bene l’ordine esatto di ogni passaggio se voglio ripetere il tutto in terra natia. Pomeriggio lungo, lo passo steso sul materasso, ho invitato Manassè a bere qualcosa più tardi, spero proprio che passi a movimentare un po’ la situazione. Quando caccio la testa fuori dal guscio domestico succedono cose.
Etienne passa a montarmi la zanzariera, Manassè bussa alla porta mentre siamo intenti srotolare la rete. Involontariamente il mio invito diventa motivo di fatica anche per lui. Il giovane è snello e slanciato, i suoi lunghi arti si prestano perfettamente per appendere al soffitto i cavi portanti.
Etienne è invece minuto, ma ha il mestiere in mano e dirige i lavori. Con un po’ di pazienza il gioco è fatto. Il risultato è simile alla gabbia degli incontri di wrestling più efferati. Ci manca che oltre alle blatte e alle ranocchie mi spunti fuori l’Undertaker sotto questa specie di baldacchino antizanzara.
Mi sento in trappola, non mi piace molto, ma devo ammettere che è utile, inoltre non devo essere arrogante né ingrato, un oggetto simile da queste parti è davvero un lusso per pochi, a stento ne dispongono i malati all’ospedale. Ringraziare muti e deferenti, altro che storie!
Finito il fissaggio Etienne si congeda e il generatore salta, tanto per cambiare. Manassè mi assicura che tornerà dopo averlo sistemato. E’ di parola. Sorseggiamo un buon bicchiere di succo sulla veranda, lui mi racconta delle sue origini.
In totale sono 5 fratelli e 2 sorelle, i suoi vivono all’estremo nord. ovviamente gli mancano. Mi scuso per avergli posto una domanda tanto sciocca, il mio dizionario di francese non mi permette di fare grandi manovre colloquiali. O forse è il mio intelletto a non permettermelo, sempre meglio lasciarsi il beneficio del dubbio!
Se la ride sereno. Come nei più importanti incontri diplomatici all’interno delle sale vaticane a porte chiuse, anche noi vogliamo condividere reciprocamente qualche frammento culturale. Manassè mi fa ascoltare un cantante africano i cui testi sono in quel dialetto mezzo inglese e mezzo fufuldè di cui mi ha già raccontato. Scoperta la mia lacuna in materia di musica afro, vuole mettersi in pari e mi chiede di fargli ascoltare qualcosa di italiano.
E’ un momento fondamentale, devo giocarmelo bene. Sta a me scegliere il primo cantante italico che il ragazzo ascolterà nella vita. Deve trattarsi di qualcosa di speciale, ma al contempo anche abbastanza mainstream, insomma devo tirar fuori qualche pezzo dal canzoniere dei chitarristi da spiaggia se voglio che un giorno, durante una sua possibile visita in patria, possa cantare a squarciagola insieme a me almeno un brano.
Avrei voluto osare di più ma ho optato per la canzone del sole. Roba da Karaoke nazionale. Ne rimane affascinato e si appunta sul cellulare il nome di Lucio Battisti con mia commossa soddisfazione.
Poi mi confessa di non aver mai ascoltato Jimmy Hendrix. Amico mio, oggi si segna la tua rinascita, da questo momento in poi sei un tipo da Woodstock, non si torna indietro. Brucio gli ultimi mega di navigazione per istradare il mio amico alla via della pace e dell’amore dei figli dei fiori.
La musica di Hendrix lo manda al manicomio, ovviamente, e così iniziamo ad ascoltare di tutto, anche della fusion nerissima da sballo.
Mi sarebbe bastato ma, proprio nel momento in cui l’operatore mi avvisa che il mio credito è terminato, un uomo panzuto e affannato si presenta sulle scale, chiedendomi se sono proprio io l’italiano che è venuto a vivere a Marza. Annuisco. Tenete a mente che non l’ho mai visto prima.
Mi passa il telefono e mi dice che Fabio vuole parlare con me.
A quanto pare dovrò abituarmi anche a sta cosa che la gente decide della mia vita senza interpellarmi minimamente un po’ come succede ad Hilary Duff in quei film americani dove spuntano sempre fuori i genitori oppressivi che ti pianificano il futuro. Afferro il telefono, è proprio un certo Fabio.
Mi sento come Magalli quando al mattino si interfaccia con le anziane signore, avete presente? “Buongiorno, lei è la signora?… Avelina ma certo! (certo de che?)
Da dove chiama signora Avelina? ecc.” Non sarò io a inventare qualche nuova maniera di fare tv, quindi, attacco con un evergreen: “pronto Fabio? Fabio is, ma certamente, possiamo darci del tu? Grazie, da dove chiami?”. Che ci crediate o no, fingere di conoscere benissimo il proprio interlocutore al telefono funziona.
Costringe il dialogo ad abbandonare di colpo l’80% buono delle formalità. Fabio è della Caritas della diocesi di ? (“Aboudà” può essere? Non ho ben capito), nella regione nord del Camerun, un bel po’ più in alto. La seconda domanda che gli pongo è quasi peggio di quel “allora come stai?” che ogni tanto scappa ai funerali.
Altrettanto superficialmente lo interrogo: “allora (molto milanese) com’è la situazione lì da voi?” Se andasse tutto a meraviglia forse non ci sarebbe una sede della Caritas, risponde: “eh, incasinata! Non è pericoloso, i bokoharam danno problemi sì, ma più a nord, se non avvisi le ambasciate puoi venire qui tranquillamente, se invece le coinvolgi non avrai mai i permessi perché comunque si tratta di una zona a rischio”. Tutto regolare insomma, molto Africa.
Fabio conosce la fondazione Cumse, è un missionario del Pime, conosce Giuseppe, il mio formatore nonché caro amico, è di Lissone, Brianza anche lui (non che sia un vanto eh), sta lì con un certo Dario ad occuparsi della moringa ed è entusiasta di avere un altro appoggio italiano da poter coinvolgere nel loro lavoro. Sognano di riuscire ad esportarla in Europa e vorrebbero condividere con me e la fondazione alcune idee.
Nel mentre arriva Delphin che vuole il mio numero per inviarmi le parole di una canzone che mi piace tanto malgrado sia scritta in un dialetto tipico del sud del paese di cui capisco meno di zero. Si aggiunge anche Frederich, mai visto manco lui, amico del proprietario dell’apparecchio, il cui nome è Alin.
Tengo il telefono incastrato tra l’orecchio destro e la spalla mentre parlo con Fabio e servo da bere ai miei nuovi ospiti.
Manassè guarda in silenzio.
Morale, appena approderò a Garouà troverò ad attendermi Fabio e Dario pronti a condividere non solo due chiacchiere in italiano, ma anche un bel piatto di pasta asciutta. Spettacolo.
Non resta che capire dove si trovino con esattezza… na parola! Saluto calorosamente i portatori dell’improvvisata ambasciata tricolore e torno a chiacchierare con il primo arrivato. Si aggrega anche Moses che, da vero aspirante giornalista, è stato incuriosito dal via vai generale.
Si parla di viaggi, di scuola, di lampade a pannelli solari, di zanzariere, di cartoni giapponesi, di sport. Mi casa es tu casa ragazzi, tornate pure quando vi pare, fa sempre piacere avere un po’ di gente intorno!
Ps. La rana Molly si è data alla macchia, nessun segnale della sua presenza nel mio bagno, resto in attesa di avvistamenti.