11 febbraio – All’ombra del Lamidò

Ci sono giorni in cui hai fatto talmente tante cose, da temere di non riportare tutto per bene. Oggi è uno di quelli.

Godyene è arrivata alle 8.30, è giunto il momento di piantare le patate che abbiamo comprato al mercato tempo addietro. Sono finalmente germogliate. Matié arriva con gli annaffiatoi, pronto per bagnare la superficie del terreno dietro casa, preparato a mia insaputa già da un po’. Bisogna zappare leggermente, non troppo in profondità, la patata chiama calore e aria per attecchire. La donna non è soddisfatta, non le basta vedermi zappettare qua e là, vuole che mi sporchi le mani.

La scena è la seguente: io che ho premura di non entrare con tutte e due le scarpe nell’orto, non vorrei mai sporcare il pavimento di casa a lavoro finito sono anche troppo pigro per togliermele, lei che scalza si appresta a piantare anche i semi di insalata. Arriva Christian.
Assiste al battesimo del mio pollice verde da oggi, Matié porta la paglia da posare sopra i semini della verdura. Questa operazione serve a mantenere umido l’ambiente in cui la piantina dovrà germogliare.
Basta bagnare i fili dorati leggermente con acqua e il gioco è fatto.

Quando tornerò dal nord troverò delle belle sorprese. Almeno spero. Ogni piantina di norma dona dalle 5 alle 8 patate. La terra è molto generosa con noi, mi domando come mai ci ostiniamo a maltrattarla. Tranquilli niente sermoni sull’umanità che va a ramengo.

Il mio energumeno mi scorta da Giulia. Vuole far visita al suo centro. Il campo da Basket è pronto, manca solo il pallone. E’ la prima volta che mi addentro nella realtà realizzata da quest’ultima. Anni fa è partita con il Cumse e, dopo un periodo passato presso le suore dell’ordine “Mater Orphanorum”, ha intrapreso una propria attività educativa qui a Marza. La padrona di casa è andata al mercato a comprare gli ingredienti per la pizza.

Avete capito bene. Giulia ha costruito un piccolo forno a legna e su ordinazione trasforma i carboidrati in fantastiche golosità. Il mio bodyguard è di casa, conosce tutti, è brillante come al solito e fa ridere a crepapelle il suo pubblico. Molte cose vengono discusse in fufuldè, senza capirci una bega mi sono unito al buon umore generale. Ci viene offerto un buon bicchiere di succo di carcadè al bancone del piccolo bar. Immaginatevi una specie di oratorio in miniatura dalle pareti rosate con bar, una pizzeria e due grandi ombrelloni di paglia sotto ai quali sedersi per sfuggire all’alta temperatura. Già di suo il succo completamente naturale è un toccasana pazzesco, la comodità e la serenità del contesto ne esaltano il carattere rinvigorente e rinfrescante.

Giulia rientra dal mercato. Vorremmo una pizza per pomeriggio. Normalmente la prenotazione si dovrebbe farla prima, ma per noi farà saltar fuori qualcosa.
La ragazza mi spiega che al centro si organizzano diverse attività formative mirate a dare indicazioni orientative ai giovani in procinto di terminare gli studi.
E’ l’occasione perfetta per le fanciulle della maison. Potrebbero trarre spunti e stimoli interessanti oltre ad avere la possibilità di fare nuove conoscenze e cambiare aria. Tutti prima o poi ne hanno bisogno. Giulia ha il mio contatto, appena organizza mi fa sapere. Sull’onda di questo entusiasmo secondo Christian una foto di gruppo pre-partenza è d’obbligo.

Siamo due maschi a bordo di un pick-up Isuzu le cui chiavi riportano il marchio Toyota. Misteri africani. Non abbiamo fretta, c’è una mezza intenzione di effettuare qualche visita, nessuno ci aspetta, noi bussiamo alle porte ed entriamo solo in caso dovessero risponderci.
Libertà. Born to be wild. In verità siamo diretti al centro delle suore, non è mica un addio al celibato a Las Vegas, non vi nego comunque che la sensazione è gradevole.

Le vecchine (Filomena e Nicole) sono arzille e pimpanti. Suor Filomena è italiana e mi riceve in lingua, cose del genere aiutano a sentirsi immediatamente a proprio agio. L’invito a bere qualcosa tramuta in un vero e proprio pranzo. Dopotutto è la festa della gioventù e loro sono contente di avere un ospite nuovo tra i confini domestici. Complimenti a pioggia per l’unico sbarbato in sala. E andiamo! Accettiamo di buon grado.

Filomena vive in Africa da 52 anni, nata a Campobasso, cresciuta a Milano, Nicole invece è francese.
Dopo più di un mese e mezzo che sono qui finalmente fanno la mia conoscenza. Era ora! Potevo farmi vedere prima! Mea culpa, non sono ancora molto indipendente o intraprendente, ma vedrò di rimediare, lo prometto.
Il tavolo ha spazio per molti argomenti di conversazione. Dalla religione alla politica (guarda caso sempre a braccetto), si passa per le guerre (immancabilmente), si ritorna all’economia locale e ai costi che un centro educativo, con scuole, maternità e posti letto, deve sostenere per sopravvivere.

Nel mezzo ci infiliamo le reciproche vite vissute, condividiamo pareri, punti di vista, sogniamo ad occhi aperti un cambiamento. Adoro trovarmi davanti a persone che, a dispetto dell’età anagrafica, mantengono un cuore fresco e nutrono impavidamente speranze verso il futuro. Il tempo è un lavoratore instancabile che non risparmia i lineamenti di nessuno, ma talvolta sconta dei favori, evitando il logorio dell’anima. Le loro, a mio parere, si sono ben preservate.

La grande stanza da pranzo è arredata da una bella mobilia di legno scuro (forse mogano), due grandi quadri sono appesi sulla parete sinistra e frontale rispetto a me (che sto a capotavola). Sulla destra sporge una credenza con degli stipi di vetro dietro ai quali emergono set di tazze e bicchieri. Il desco è imbandito in grande stile, è un giorno di festa. Acqua, vino rosso, bibite gassate varie. Piatti di plastica dura, blu e bianchi.

I commensali sono divisi così: io al centro del tavolo ovale, Christian alla mia destra, un ragazzo di nome Alexander subito dopo, segue suor Filomena di fronte a me, alla sua sinistra suor Nicole, a fianco suor non mi ricordo e in ultimo tra me e non ricordo chi, un’altra donna, probabilmente l’insegnante della scuola primaria.
Tutta questa panoramica mi viene in soccorso solo per raccontarvi quello che succede tra poco. Il cibo non manca: pasta al pomodoro, cous cous con una salsa verde chiamata “Lalo” o, per gli amici, kelen kelen. Un vassoio d’argento è stracolmo di quelle patatine a forma di nuvola che spesso spizzichiamo al ristorante cinese.
Qui sono bianche, rosa e verdi e vengono chiamate: orecchie del vescovo. Sempre presenti le patate di contorno a qualche assaggino di carne.

Mentre mangio avidamente l’involtino suor Filomena mi rivela un segreto: è carne di antilope comprata sotto banco. E’ vietata la caccia in Camerun ma acquistare prodotti del genere presenta dei vantaggi notevoli. Punto primo anziché pagarla 2.400 CFA al chilo le costa 1.400 CFA, secondo risparmiando in questa maniera può permettersi di nutrire regolarmente tutti i bimbi del centro con una prelibatezza non da poco, fondamentale per la loro alimentazione. Impiccheranno Geordie con una corda d’oro, è un privilegio raro, rubò 6 antilopi nel parco del re, vendendole per denaro. Chissà quanti cacciatori simili si nascondono nei sobborghi di Ngaunderè, prossimo obiettivo: partecipare ad una battuta clandestina.

Normalmente sarei contrario, ma per dovere di cronaca, sfamare dei bambini come si deve è una missione che consente di arginare molti sensi di colpa derivanti dalla cultura europea dove non si uccide per vivere, ma si macella per gola, che è diverso.

ALERT CONTENUTI CRUENTI:
Sono perso per un attimo nei meandri del gusto della selvaggina saporita quando la donna seduta alla mia sinistra si alza di scatto, gira la faccia all’indietro e con il fare di chi vuole mollare uno starnuto sputa una striscia di vomito verdastro. Il fatto è talmente subitaneo ed improvviso da lasciare tutti a bocca aperta.
Mi sembra di essere catapultato dentro a un film dei Monty Python. Spero che nessuno segua l’esempio della signora qui presente, altrimenti ci ritroveremmo in un mare di schifo. Alexander si alza di scatto e corre a prendere qualcosa per pulire, Filomena lo segue. Nicole accompagna la signora all’esterno. Starà bene?

Ce lo auguriamo tutti. Si è coricata un minuto dopo. Probabilmente un primo segno di leggero paludismo. Nulla per cui preoccuparsi. Se lo dicono loro!
Io un po’ mi preoccuperei, ma va beh…inezie.

Il telefono di suor Filomena trilla nervoso, è Giulia che ha pronta la nostra pizza da un’ora. E chi se la ricordava? Siamo al caffè, arriviamo.

Prima di congedarci le due anziane vecchine mi omaggiano di un libro per loro importante: “Sous l’arbre sacré”. La storia di un medico diventato prete missionario alle pendici della regione nord del paese. Esigo una dedica: “A te Valeryo, perché tu possa scoprire le ricchezze dell’Africa!”. Non resisto, devo abbracciarle.
Cerco di tenere la faccia a distanza per prudenza, trattenendo il respiro per 50 secondi. A presto mie care, quando torno vi tocca pranzare ancora con me. Loro di rimando: “Questa è già casa tua, ti aspettiamo!”. Dannazione, perché deve essere tutto così tremendamente sentimentale?

Mussa ci attende all’ombra di uno dei grandi ombrelli di paglia. Ha la nostra pizza con se. Raga è buonissima. Pomodoro, mozzarella, carne, cipolla e peperoni. Leggerina. Una bomba!

Io e Christian iniziamo a fantasticare sulla possibilità di aprire una catena di locali in tutto il paese. Un prodotto del genere potrebbe davvero sbancare. Hey un momento? Che fine hanno fatto tutte quelle belle intenzioni umanitarie, aiutiamo il prossimo, terzo settore e bla bla bla?
Non possiamo ridurci a pensare come degli avidi squali tigre. “No Vale, assumiamo tutti i ragazzi di Marza come camerieri!”. “Ma dillo prima no!”.

Con la certezza di avere in tasca le risposte per un florido futuro garantito alle generazioni under 18 della comunità, ripartiamo alla volta del Lamidato.
Il tribunale civile in cui il Lamidò, ovvero il capo della congregazione musulmana a Ngaundéré, decide le controversie in ambito civile ed amministrativo.

Pensavo si trattasse di una capatina informale, invece ci attendeva una guida pronta a raccontarci il passato e le dinamiche che hanno caratterizzato l’ascesa al potere dell’attuale rappresentante. L’antenato dell’odierno capo è approdato in Camerun nel 1820, già sovrano delle comunità islamiche del Mali e del Niger, pensò bene di conquistare anche quella locale, riunendo così di tre regni.

Saggio decise di mescolare la sua famiglia con quelle autoctone combinando matrimoni ed eleggendo rappresentanti politici locali. Per facilitare le comunicazioni decise di mantenere anche la lingua della tribù sottomessa degli Mbum.
Molti governanti furono destituiti per mala gestio nel corso dei decenni, solo l’attuale e suo padre, sono stati in grado di mantenere saldo il potere per più di 20 anni. Le luci dei lampioni dell’immensa tenuta sono accese in pieno giorno.

Non è un caso. Il potere qui si manifesta nella più ostentata delle maniere.
Fai ciò che fai perché puoi farlo. Decine le case possedute, dozzine le mogli, svariati figli, immensi giardini. Tutto un mondo si nascondo dietro alle mura contornate dal filo spinato. La grande Moschea verde, la sua moschea, del Lamidò, troneggia in mezzo al quartiere. Enorme, scintillante. Chissà quanto è alto? I suoi bastioni sembrano anticipare l’aura lunga di un ombra gigantesca. Come se un’enorme mano si stendesse severa sopra i tetti del quartiere islamico. Il padrone veglia dall’alto, tutto vede, tutto conosce, niente perdona. E’ papa ed è re delle genti.

La guida continua: il parrucchiere personale acquista il suo importante incarico per via ereditaria, impegnandosi nell’imperiale tosatura due giorni alla settimana, mercoledì e venerdì. Il tribunale è tutt’ora attivo e riconosciuto dal governo camerunense. I diversi poteri convivono in stabile equilibrio da circa due secoli. Eccetto le cause penali rimandate al palazzo di giustizia regionale, il resto si discute nella grande capanna col tetto in paglia.

Quest’ultimo viene ritoccato ogni due anni, le mura invece sono rimaste immutate dalla costruzione. All’interno dello stabile vi sono diversi cimeli, scudi di pelle di bufalo nero con cui i soldati combattevano nelle guerre antiche, altri tratti dalle orecchie d’elefante, archi in legno resistente e leggerissimo, faretre di pelle di bue, frecce. Strumenti musicali tradizionali. Tutto parla delle origini di un popolo guerriero, forte, orgoglioso e temibile.

Il nostro insegnante ci apre la porta della stanza dedicata ai vertici dell’assemblea, possiamo fotografare ma è vietato entrare. Nessuno può accedere se il Lamidò non è presente. Diverse le poltrone e le sedie poste lungo il perimetro circolare dell’edificio. Al centro un letto rivestito in seta damascata.
Si tratta della sedia regale ove solo il sovrano può posarsi e nessun altro. In nessun caso. Autorità, rispetto, riverenza, paura. Così nei secoli la famiglia di quest’uomo ha saputo infondere nella mente dei suoi sudditi la disciplina utile a sottostare alla monarchia.

Sulle pareti la simbologia delle decorazioni rimanda a sua volta agli inizi. La pianta del dattero e le scimitarre, simbolo dell’islam. L’ardesia su cui è scritto il corano, le lucertole simbolo della realtà rurale, gli scudi, i corni atti a dare allarmi.
Il soffitto è in legno di palma. C’è un piccolo pertugio nell’angolo inferiore destro. In caso di attacco la famiglia reale veniva nascosta al piano superiore, in una stanza grande quanto quella in cui ci troviamo, isolata attraverso pareti di terra, utili a sopravvivere persino in caso di incendio.
Ignari della guerra ai piani inferiori, i nobili traevano riparo sotto la grande tettoia. Ci sono tre porte ad illuminare lo spazio. L’ingresso principale e due porte rispettivamente sui due lati corti del salone. A sinistra la stanza in cui venivano tenuti in custodia i prigionieri, non esistendo all’epoca prigione alcuna.
Sulla destra invece l’ingresso destinato ai cittadini bisognosi di porre le loro richieste al re.

Oggi il Lamidò siede sul suo trono il venerdì e la domenica. La poltrona viene messa davanti alla parete dipinta di nero.
Nessuno oltre al capo può sedere dando le spalle alla funero sfondo. E’ il modo con cui si contraddistingue da sempre lo spazio riservato alla testa coronata.
Potrei presentarmi qui una domenica e chiedere udienza, così, tanto per il gusto di incontrare un condottiero. E’ la volta buona che mi caccio nei guai. Forse per oggi ho finito le buone idee.

Si risale in auto, il vescovo è assente, sarà per la prossima. Christian, a differenza mia, ha ancora qualche asso nella manica: “Ci facciamo una birra?”.
“Questo sì che si chiama parlare vecchio mio, anche un paio!”.

 

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