6 gennaio – Ozio padrone del vizio?

Scherzavo! L’acqua c’era eccome e io ne ho ben goduto. Poche cose mi appagano quanto coricarmi pulito in un letto profumato.

A qualche centinaio di metri da casa si odono le musiche di una festa pazzesca. Essere bianchi è proprio una rottura. E’ pericoloso andarci da soli se si è del luogo, figuriamoci per un NASSARA.
Le percussioni menano talmente forte che avrei voglia di mettermi a correre in direzione del fragore come un cane selvatico, ma purtroppo l’unico scatto a me concesso è quello finalizzato a girarmi su un fianco. Mi rifarò prima o poi!

Alle 6 la sveglia osa interrompere i miei sogni di gloria. Ero proprio nel mezzo del grande cerchio, sognavo di essere alla festa con un’enorme Jambè che percuotevo con foga suscitando l’adorazione della folla. Mi sollevo dal letto e cerco di rimettermi insieme. Una mende morta mi attende in cucina, apro la porta sul retro e la
rispedisco al mittente con tanto di raccomandata. Ormai non mi fanno quasi più effetto.

Stando ai patti Etienne dovrebbe presentarsi alle 6.30.
A quell’ora si presenta però solo Suor Nicole per avvisarmi che, nel caso non lo avessi ancora capito, in Africa le 6.30 sono le 7. C’è un fuso nascosto che non avevo previsto, lo terrò a mente per la sveglia di domani.

All’arrivo del mio compare mi getto in una marcia affannata verso il primo campo di MORINGA che dovrò ispezionare.
Dai bambini ai ragazzi, tutti con un bel grembiule verde, percorrono la nostra strada in direzione opposta, loro dalla campagna vanno a scuola, noi invece ci tuffiamo in direzione della terra rossa.

Un bimbo di 6 anni fa da guida al fratellino più piccolo, constato che entrambi sono freschi come dei boccioli, io grande e grosso faccio una pessima figura mostrando senza vergogna un mezzo fiatone. Del resto sono stato bellamente fermo a pascere per due settimane, è normale annaspare un poco. Arrivati al campo ci sporchiamo per benino,
Etienne mi illustra il suo lavoro palmo per palmo, dalle piante più attempate a quelle più giovani, strappa due mandarini verdi dall’albero, me ne lancia uno, aspro più di un limone. Faccio un’espressione che è tutto un programma e mando giù quanto più avidamente possibile per la soddisfazione del mio interlocutore.

Ci sono parecchi lavori da fare, scemo che io che pensavo 10 mesi fossero tanti. Illusione, quando si tratta di terra non basta una vita.
Sussiste per il contadino questo bizzarro rapporto di schiavitù e libertà al medesimo tempo. Lavorare nei campi implica una pace sconfinata, piante magnifiche con cui conversare, niente telefoni, niente computer, niente e-mail, niente capo che ti grida addosso. Insomma: la pace. Le piante hanno i loro tempi e il sole ti impedisce fisicamente di lavorare più del dovuto. La qualità della vita quotidiana aumenta in modo esponenziale. Il prezzo da pagare?

Vivere in vacanza implica rinunciare alle vacanze. Niente ferie, non puoi metter in pausa la crescita degli alberi o la vita degli animali, quelli volenti o nolenti rimangono i più grandi faticatori del pianeta.

Pochi fortunati possono delegare per un paio di settimane il loro appezzamento a qualche uomo di fiducia, ma questo non è il comportamento proprio del contadino purosangue. Quest’ultimo vede la terra come una madre e le piante come dei figli, creature di cui sentirsi responsabili vita-natural-durante, senza sconti.
Così i germogli crescono a dose di sole, vento, pioggia e amore. Se Etienne mi giurasse di aver sentito un albero rispondergli, non farei troppa fatica a credergli visto l’operato certosino che ha compiuto negli anni.

Le sue impronte, le sue mani, le sue gocce di sudore, non c’è segno di forma di vita umana estranea ad Etienne su questo fazzoletto di terra. Forse è proprio per tale verde intimità che il contadino si incatena volontariamente al suo terreno, dichiarandosi schiavo, prostrandosi con un gran sorriso di soddisfazione. Fa parte del pacchetto. Avere dei doveri, in qualunque mestiere, implica essere assoggettati a certe regole, a certe mansioni, a certe tempistiche. Forse tra tutti, quello dell’agricoltore rispetta di più la natura dell’essere umano.

Ma è troppo presto per pronunciarsi. Ne riparleremo tra 10 mesi quando ne avrò abbastanza di tutto e agognerò la madrepatria ed il suo fulgido tricolore.

Sono già le 8.37, sarà meglio sbrigarsi, dovrei essere in ufficio per le 9. Voi di sicuro avrete compreso ben prima di me che si doveva considerare il fuso.
Raggiungo la porta dell’ufficio con la stessa foga di un maratoneta che tocca il traguardo dopo 42 km di sofferenze: CHIUSO.

Mi arriva un messaggio, Suor Nicole:
“Ciao Valeryo non siamo ancora pronti, ci vediamo alle 10”.

Bello aprire e chiudere gli uffici a seconda di quando si è pronti. Dovremmo imparare anche noi questa flessibilità anziché scapicollarci come matti per essere puntuali ad un appuntamento. BUGIA. Odio aspettare. Mi son proprio perso la distribuzione della pazienza alla nascita, non saprei dove, ma ero altrove. Non ne ho. Conviene però che io impari ad averne.

In ufficio mi dilungo con Sophie e Clarisse su questioni ideologiche inerenti la conquista dell’autonomia del centro da qualsiasi fondazione o ente di turno. Le ragazze vorrebbero essere in grado di provvedere a loro stesse senza più tendere la mano.
E’ questione di orgoglio, di dignità, di indipendenza, di libertà. Insomma, roba grossa. Io personalmente, per quel che vale, quoto!

Loro apprezzano e mi invitano a visitare il porcile alle 17. Accetto di buon grado. Rientro a casa alle 13.30. Dopo una giornata così ho una fame che manco i lupi della siberia durante il rigido inverno. Godyene mi ha preparato carne trita con pistacchi, sugo di melanzane a parte e il mio adorato riso bianco. Seduto al desco faccio razzie degne di Conan il barbaro. L’endorfine da attività motoria come il pasto iper-proteico mi hanno tirato la molla. Sono le 14.30, il sole picchia duro ma io devo lavare i panni. Me la sento. E’ il mio momento. Verso un chilo di detersivo in polvere nel secchio e comincio a sfregare in modo buffo e scoordinato.

Una gallina selvatica di tanto in tanto si avvicina con il palese intento di rompermi le balle. La scaccio per mezzo di una secchiata d’acqua minatoria. Paganini non ripete, la prossima lavo anche te già che ci sono!
In un modo o nell’altro, vi dirò, ho portato a casa il risultato. Per gli affezionati è mio dovere dire che ho lavato per la prima volta in questa storia anche la maglietta profuma ambienti pregna di crema solare. Come la prendereste se vi dicessi che quel suo profumo dolce un po’ mi manca? Quasi quasi un giorno di questi riprovo! Malgrado tutto non sono ancora in pace con me stesso. Devo agire.

Vado da Mr. Francois e consegno finalmente il pallone acquistato per i suoi cagnolini. Qui trovo anche Sophie. Facile allora andare a prendere Clarisse e dirigerci insieme al porcile. In questo mistico luogo puzzolente due anatre fanno da guardia alle gabbie dei maiali. Su tutti ne spicca uno enorme, talmente grasso da far fatica a muoversi. È proprio vero che in Africa le dimensioni contano. Sophie inizia un gioco crudele. Entra nella gabbia e gli si avvicina soltanto. Quello, codardo più di me, pensa al peggio e, sentendosi in pericolo, trova le forze di alzarsi sulle zampe e fare due passi, ne sarebbe bastato un terzo per assaggiare un po’ di libertà, ma Sophie gli chiude la gabbia sotto il naso proprio
sul più bello….

Niente da fare! E’ un animale bruttino. I maiali di qui hanno grosse orecchie da pipistrello e un muso più allungato di quelli che mio zio mi ostentava in terra Calabra quand’ero piccino. Oggi comprendo il suo orgoglio. In confronto a questi i suoi potevano dirsi davvero graziosi. In Africa si sa, la natura tutta assume un aspetto più selvaggio. Orecchie più grandi per udire i pericoli a lunghe distanze, lo stesso vale per il muso e quindi l’olfatto ancor più sviluppato.

Rispetto al solito ho avuto una giornata movimentata, eppure sono in vena di colpi di scena. Decido di bussare alla porta di Godyene, mi accoglie con Soumaya aggrappata al collo. Niente di meglio di una chiacchierata per concludere in bellezza.

Sono stato veramente appagato dall’aver fatto finalmente qualcosa. Sono contento di lavorare? Ma che è? I rosari fanno effetto? Non saprei. Penso però che sarebbe bello se potessimo decidere di rimboccarci le maniche per voglia e non solo per necessità.

Vorrei potervi vendere questa idea come una delle mie, ma sfortunatamente gli antichi romani mi hanno preceduto.
Pensate che il “negotium” (il lavoro, gli affari) per l’alta società romana era una questione propria degli schiavi. Quasi paradossale al giorno d’oggi.
I nobili senatori invece, molto comodamente adagiati nelle ville di campagna, ambivano a coltivare il pensiero filosofico, a banchettare in compagnia, a contemplare l’arte, a fare esercizio fisico e a consumare (tra l’altro) buone letture. MICA SCEMI!

Sarebbe magnifico se la professione fosse un po’come il cibo. Saziarsi quando si ha fame, indipendentemente dagli orari consolidati dall’uso.

Viva lo spaghetto di mezzanotte, viva la merenda delle 18 e viva l’ozio.
Sembra che io abbia parecchia voglia di sognare, in questi casi, meglio provare a farlo ad occhi chiusi.

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