25 febbraio – Milano da bere

Non sono mai stato capace di controllare uno dei miei istinti su tutti, l’appetito. Sono un debole ma anche un predatore. Tutta la mia calma e compostezza (ammesso che io ne abbia) svaniscono in un istante. All’improvviso una morsa mi stringe lo stomaco, sento come dei crampi fulminei, mi tremano le mani come se avessi un calo glicemico e divento intrattabile. Nervoso. Teso. Irrequieto. Da bambino ero una vera peste in queste occasioni.

Ricordo i miei poveri genitori messi alla prova dalle fauci del sottoscritto. Appena nato rifiutavo il seno materno, esigevo il biberon (il latte scende più in fretta) bevevo talmente velocemente da sboccare tutto 3 secondi dopo. Mio padre era costretto a prepararne due alla volta, tipo pit stop. Verso i 4 anni prendevo di mira la povera nonna. A merenda, tornato dall’asilo, lei mi chiedeva se avessi fame. Le mie pretese erano assurde, la più eclatante: il passato di verdura con la pastina! Leggerino come snack considerando che ero già in grado di mangiarmi 250 grammi di midolline da solo. Ovviamente non mi diceva mai di no! Alle elementari c’era il doppio sandwich col tonno. Alle medie mia madre preparava due pentole di pasta, una per me e una per gli altri. Mangiavo 500 grammi a pranzo e digiunavo la sera… per non esagerare. Ho sempre avuto un fisico stagno, non grasso ma decisamente robusto. Ancora oggi patisco i morsi della fame ma per lo meno non do di matto. Non subito almeno. Fino si 18 anni, facciamo 20, indipendentemente dalla situazione avrei fatto carte 48 pur di addentare qualcosa. Non importava trovarsi a messa, al supermercato, a lavoro o ad un concerto. Ovunque fossi esigevo cibo, senza discussioni. Oggi sono più pacato. Non mi metto a gridare e a imprecare come un matto se sono con gli amici, o se sono in viaggio. Mi adatto al contesto, in silenzio mi trattengo finché posso. La mia soglia di sopportazione è aumentata e, inoltre, ho dei piccoli trucchetti appresi lungo il cammino che evitano di far emergere il mio lato peggiore. Mi sveglio sempre affamato, eccetto quando davvero esagero a cena. La vecchiaia ha anche diminuito la mia capacità in termini di volumi. È molto più raro che divori mezzo chilo di spaghetti. Può succedere, non crediate, ma ormai si tratta di sporadici episodi.

Alle 8 io e Christian facciamo il caffè e il te, abbiamo delle ottime brioches da sgranocchiare. I saccottini al cioccolato africani (artigianali) sono la fine del mondo. Con molta calma verso le 10 decidiamo di dirigerci all’ospedale del COE per una visita esplorativa e per portare i nostri saluti ai volti familiari. Incontriamo la moglie del dottor Alberto che subito ci invita a cena. Poi la direttrice dello stabile. Alcuni amici di Christian sparsi qua e là e infine il dottor Alberto in persona. Solo ieri ha effettuato 5 operazioni, oggi 1. È in camerun dal 77’, molto prima che io iniziassi la mia personale battaglia con i biberon. Ci congediamo. Il mio compare deve rientrare a casa, la sua piccolina ha qualche sintomo di malessere e vuole dare un’occhiata. Non serve aspettarlo per pranzo. Già il pranzo. Sono le 11.30. Marlise gravita in casa dispersiva ed estraniata dal mondo come di suo solito. Non c’è molto in dispensa deve andare al mercato. Esce alle 12. Di questo passo non mangeremo prima delle 14. Ora mentre sono seduto sulla sedia di legno in giardino pondero il da farsi. Se Marlise non prepara qualcosa entro le 13 io ingerisco lei direttamente, intera, senza tanti complimenti. Ho seriamente paura di perdere il controllo. Nonostante l’ottima colazione so bene che da un momento all’altro potrebbe farsi vivo quell’accenno di crampo che preannuncia il disastro. Non voglio incazzarmi con lei, non voglio comportarmi da bestione maleducato, non voglio nemmeno offenderla.

Cosa fare? Trucchetto! Sono un uomo libero dopo tutto, mi scaldo il riso e il maiale di ieri e spazzolo il contenuto delle pentole senza remore, ad una velocità impressionante. Come sempre non riesco a mangiare lentamente, in Giappone dicono che per una lunga vita si deve masticare almeno 33 volte a boccone. Io spesso economizzo anche sul lavoro di mascella, tanta l’esigenza di saziarmi. Apparecchio la tavola e bevo un sorso d’acqua. Sono certo che per 3 ore non avrò sorprese. Marlise può tornare con tutta la calma del mondo. Rincasa alle 14. Inizia a cucinare alle 14.10. Si interrompe e mi chiede se gradisco l’insalata. La vorrei ma significherebbe mangiare alle 16: “no grazie, stiamo leggeri!”. Sbircio. Lei, la furba, spizzica mentre cucina, senza minimamente preoccuparsi del fatto che magari la gente in trincea stia morendo o, ancora peggio, che possa avere degli impegni nel pomeriggio tali da non potersi permettere di pranzare alla spagnola. Meno male che sono sazio e sereno. In condizioni differenti avrei potuto compiere una strage. Alle 14.40 mi dice: “vale è già pronto!” “Ma va? Così presto? Ma grande!” Ironizzo, la cosa più assurda e divertente è che lei non afferra, pensa che io sia davvero compiaciuto di tanta rapidità. Marlise ha il potere, è più avanti di tutti, ha capito benissimo che il tempo non esiste, è un concetto inventato da noi, ci costringe a correre e a rispettare certe tabelle di marcia, ma in funzione di cosa? A guardar lei protetta dalle invisibili pareti della sua bolla stabile, imperturbabile, le lancette dei secondi perdono di significato. Vive il momento e accetta il fatto che si mangerà solo quando sarà pronto, impossibile fare diversamente, impossibile allungare il passo ed imparare la rapidità, a che servirebbe? Se non si ha fretta non si ha l’esigenza di scattare. Io in fin dei conti non ho nulla da fare, non mi sento in diritto di riprenderla, non oggi. Mi nascondo a guardarla da dietro lo stipite della porta, ci mette minuti, anche decine, prima di accorgersi della mia presenza. È come se si immergesse negli oggetti e negli ingredienti. Dopo una lunga apnea nella pentola delle verdure, ecco che sbuca dal bordo del recipiente e strabuzza gli occhioni: “vale ma sei qui!” “Si da un quarto d’ora!”. Mi dice di iniziare a mangiare, insisto per aspettarla, 15 o 15.05 non mi cambia nulla. La preghiera di oggi è più lunga del solito, sembra lo faccia apposta per torturarmi.

Finalmente posso dirlo: “bonne apetit!”. Endolè e patatine fritte. Lei parla e non mangia, manda giù il boccone e riprende a discutere giocherellando con la forchetta nel piatto. Quanto invidio quelli che non sentono la fame. Mi stanno sul cazzo perché non possono capire (e mai potranno) quelli come me, ma dall’altra so che il coltello dalla parte del manico ce lo hanno loro. Unica consolazione: se dovessero rapirmi userei la mia ira funesta al terzo giorno di pane e acqua per abbattere le mura della cella e fugarmela alla chetichella. Alle 17, quindi dopo pranzo, andiamo alla catechesi dove insegna ai giovani del quartiere la parola di Dio. Oggi sono accolto con più calore della scorsa settimana. Aiuto persino a mettere via le sedie e le panche. In omaggio le donne mi regalano due pacchi di arachidi salate gustosissime. Sono le 18.30, giusto in tempo per andare a cena dal dottor Alberto. Andiamo a prendere Alex, il presidente del Coe in Camerun, terzo ospite della serata. La famiglia del dottore ha preparato il couscous con le verdure. Per il brindisi mi viene chiesto di chiudere gli occhi. Li riapro, il doc sta versando Campari nel mio calice! Pazzesco. Mia madre non pensava che ci fosse il pane in Africa, che faccia farà quando le dirò di aver fatto aperitivo a Garoua? Attendo che i cubetti di ghiaccio raffreddino a dovere il tonico e ingollo la rossa pozione. Le guglie del duomo di Milano mi appaiono nella mente, mi sembrano vicinissime, vedo i dannati piccioni volare e defecare sui turisti cinesi vestiti male, vedo la Feltrinelli in galleria proprio sotto al caffè “Marchesi”. Vedo il lastricato e i portici che danno in “San Babila”. Quanta vita scorre in un bicchiere? Momento Amarcord. Dura poco. Il calore familiare del convivio mi riporta sulla terra rossa, non di Marte, ma dello straordinario paese in cui mi trovo. Come colpo di tacco Theresia, la moglie di Alberto, offre una crostata alla marmellata di melone. Il dottore riappare con una bottiglia di liquido giallastro. “Chiudi gli occhi e annusa!”. Come disse Garibaldi al suo re: “obbedisco! Mi pare limoncello? Possibile?” “Bravo! Hai indovinato, fatto con limoni di casa!”. L’aroma mi catapulta a Sorrento. Una bella mora napoletana  in una veste celeste si sventola i grossi seni per mezzo di un Panama. Prima che il vento possa sollevarle la gonna in stile Marilyn riapro gli occhi. Il caffè a contornare il super alcolico mi stende: immagino drappi tricolore ovunque. Griderei: “forza Italia!” Se non fosse il nome di un partito dalla dubbia reputazione. Abbiamo mangiato fino a scoppiare. Non riesco a girarmi a pancia in giù sul materasso. Una cosa è sicura, sarò sazio fino a domani sera, anche se Marlise dovesse cucinare tardi la passerebbe liscia, ancora una volta! È invincibile!

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